Il paese dell’eterno cielo blu nella voce delle donne, custodi della tradizione e protagoniste del cambiamento
È una giornalista? È qui per la visita del Papa in Mongolia?”, mi domanda la sconosciuta, mentre aspettiamo l’ascensore nella lobby di un grande albergo della capitale UlaanBaatar.
Annuisco e l’osservo. È sulla sessantina. Indossa il “deel”, la lunga veste tradizionale delle donne mongole drappeggiata in vita da una cintura in cuoio. Il tessuto è un blu notte.
Sulle maniche spicca un l’intreccio di un ricamo floreale, mentre i lunghi capelli, striati di bianco, sono raccolti in un vistoso fermaglio.
“Cosa pensa della Mongolia?, mi chiede di nuovo. Lo fa con gentilezza e con genuino interesse.
“Un miracolo!”, rispondo senza pensare.
La donna mi sorride. I suoi occhi neri si accendono mentre pronuncia “Bayarlalaa”, che significa grazie in lingua mongola.
L’ascensore è al piano. Continua a sorridere mentre le porte dell’abitacolo si chiudono davanti a lei. Di lei mi resta una piacevole sensazione di familiarità.
Se avessi avuto più tempo, le avrei spiegato che, sono state per me, proprio le donne di questa terra le migliori narratrici della bellezza dell’eterno cielo blu, dell’oceano verde che è la steppa.
La bellezza degli spazi, dell’isolamento, del divino silenzio del deserto. Immagino a nord la gelida Siberia e a sud le dune sabbiose del Gobi. Questo è la Mongolia, stretta, nella sua storia, in un abbraccio forse troppo forte dalla Russia e la Cina. La ferrovia transmongola che, oggi attraversa il paese da nord e sud, collega la Russia con la Cina. Prova del reciproco interesse delle due super potenze per la patria di Genghis, oggi tra i paesi meno abitati al mondo. 3 milioni di abitanti su un territorio che è grande 5 volte l’Italia. “È la terra in forma di paradiso”, scrive il musicista Giovanni Lindo Ferretti dopo il viaggio intrapreso con Massimo Zamboni in Mongolia nel 1996. L’album “Tabula elettrificata” condensa le emozioni di questa loro esperienza.
La mia scoperta sono i volti, lo sguardo intenso, a tratti melanconico ma fiero delle donne, che ho incontrato nel mio viaggio. I loro occhi dicono più di mille parole sulla forte identità di questo popolo e, di cui un terzo, vive ancora nelle “ger”, le tipiche tende di feltro.
Un esempio di pastoralismo itinerante che sopravvive e resiste alla modernità. La quotidianità di interi nuclei familiari ruota intorno a queste tende circolari. Un intreccio di assi di legno con un’apertura in alto. Un foro che cattura la luce all’esterno e da cui si libera il fumo della stufa posizionata all’interno. Il pascolo, la mungitura, la cura di greggi, cavalli e cammelli si ripetono da secoli e fanno degli uomini mongoli, i degni eredi del grande Genghis Khan.
Il condottiero è una figura controversa, flagello per l’Occidente, ma riabilitato in parte dalla storia perchè il suo valoroso impero nel XIII secolo ha saputo creare un ambiente politico e sociale omogeneo, fondato su una società patriarcale in cui la figura femminile ha sempre avuto però un ruolo fondamentale. Le donne erano importanti nell’allestimento di un campo, nella sua smobilitazione, nella logistica dei combattimenti. Gli uomini combattevano valorosi a cavallo nella steppa sconfinata, mentre le donne erano capaci di guidare i carri o portare le carovane per gli approvigionamenti. Alle donne spettava inoltre la cura del nucleo familiare, la preparazione dei pasti e l’educazione dei figli. Angeli del focolare sì ma con la tempra di combattenti nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, in un paese in cui la temperatura d’inverno raggiunge i -40 gradi.
Una leggenda mongola racconta di una donna simile ad un uccello e dalle ali possenti che proteggeva la Terra. Mi vengono in mente le aquile, i nibbi che ho visto nel cielo blu della steppa mongola. Questi animali rappresentano libertà e liberazione. E così sono le donne mongole. Questa sensazione si ripete nell’incontro con Lucia.
È una delle prime donne convertite al cattolicesimo. Vive nella cittadina di Arveiheer, nel centro sud della Mongolia dove i missionari della Consolata sono presenti dal 2003. Lucia ci accoglie nella sua ger. È uno spazio molto accogliente. Ci offre del brodo caldo, uno stufato di spaghetti di riso e pezzi di carne che cucina per noi direttamente nella pancia della pentola sul fuoco. Nella tenda ci sono due letti e 2 mobili di buona fattura. Il bagno è all’esterno. L’elettricità, l’acqua calda, come in tutte le ger, vengono da un generatore autonomo.
Sulla credenza ci sono le immagini della Vergine Maria e vicino c’è anche un altarino buddista. In Mongolia il buddismo si lega al culto ancestrale della natura. Nel nostro viaggio nella steppa abbiamo incontrato spesso dei mucchi a piramide di pietra e ossa con al centro un palo di legno fasciato da veli azzurri. La tradizione dice che intorno a queste pile votive si riuniscano gli spiriti della natura. Quel senso di accudimento e protezione che Lucia oggi chiama Provvidenza. Lei è vedova due volte. Ci racconta che il primo marito muore assiderato, il secondo s’impicca nella tenda. Entrambi avevano problemi di alcolismo, piaga purtroppo diffusa nel Paese. Mentre lei parla, la sua bambina versa lacrime silenziose. Le sue manine, chiuse a pugno e appoggiate sugli zigomi, non riescono a fermare il rovescio di tutto quel dolore.
Lucia dice di essere fortunata perché i missionari della Consolata hanno fatto tanto per lei. La ger è infatti un regalo dei religiosi. Ci dice che nella fede ha trovato pace. Spera che sua figlia realizzi il sogno di diventare un’insegnante come i volontari, catechisti e i religiosi che lavorano per aiutare ogni giorno la sua comunità. I missionari della Consolata hanno tra l’altro dato vita a laboratori di cucito per le donne e scuole per garantire un’istruzione ai bambini.
Conosco suor Teodora, che vive nella Missione ad Arveiheer da 5 anni. Lei è una suora tanzaniana. Quando le chiedo come sia riuscita a sopportare gli inverni mongoli, lei ride e mi dice che per lei è una benedizione stare in Mongolia. C’è tanto da fare alla Missione, punto di riferimento per tante famiglie. Le statistiche dicono che in Mongolia l’alfabetizzazione è più femminile e la disoccupazione più maschile. Questo fenomeno è soprattutto evidente nelle città dove le donne frequentano le università, lavorano negli uffici pubblici, hanno cariche amministrative. Il ministro degli esteri mongolo è una donna. E’ stata proprio lei a ricevere il Papa all’aereoporto di UlaanBataar in occasione del suo recente viaggio in Mongolia.
La capitale è una realtà urbana in allestimento. Gli edifici hanno una forte impronta sovietica. Del resto la Mongolia è stata sotto la Russia fino al 1991. La piazza principale invece mi fa l’effetto di una quinta di teatro. L’ampio spazio quadrangolare è incorniciato dai grattacieli che guardano dall’alto il palazzo presidenziale, sulla cui facciata, domina la grande statua di Genghis Khan. Nonostante siamo in pieno centro cittadino, le strade sono polverose. Hanno avvallamenti, buche perché d’inverno il gelo rompe l’asfalto.
Le macchine inquinanti rilasciano un odore acre di cherosene che impregna l’aria. Il codice della strada asseconda uno stile di guida molto creativo e personale tra gli automobilisti, concentrati ad evitare gli interminabili serpentoni di vetture, gli incolonnamenti di autobus e mezzi di trasporto pesante che sono il volto urbano ed inquinato di UlaanBaatar. La città, piena di cantieri e di ponteggi ovunque, subisce l’inarrestabile avanzata del cemento e la colonizzazione dei palazzi sulle pendici dei monti che cingono la città.
Di questo boom immobiliare mi parla Maral, giovane studentessa di economia, che vive con la famiglia, nella nuova periferia della capitale. La madre ha un banchetto di prodotti alimentari al mercato.
Per aiutare la sua famiglia Maral, dopo l’università, lavora in un grosso albergo. Mi dice che molte amiche della sua età hanno aperto piccole attività commerciali.
La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale si sono spesi negli ultimi anni, nella fornitura di micro-credito alle donne mongole sempre più protagoniste del tessuto sociale.
Maral s’interroga sul futuro del suo Paese che oggi è un’economia in forte crescita anche per la sua industria mineraria. Nel deserto del Gobi è stato scoperto un giacimento di rame e oro che dovrebbe produrre in futuro il 30% del PIL della terra di Genghis. Nonostante la presenza di carbone e petrolio la Mongolia compra per 3/4 dalla Russia. È la grande sfida del nuovo capitalismo estrattivo contro l’economia della steppa, fatta di prodotti provenienti dalla pastorizia, che esporta principalmente in Cina.
La risposta è già nella bandiera della Mongolia su cui spicca la fiamma con 3 punte che simboleggia- mi spiega Maral- il legame tra passato, presente e futuro. Il valore della tradizione e la spinta verso la modernizzazione. Ho letto che tra le dune del Gobi nel 1924 sono stati rinvenuti i primi scheletri e uova di dinosauro.
L’immaginazione va poi all’epoca d’oro di Genghis Khan e al suo vasto impero che si estendeva dal Pacifico al Mar Caspio. Non si sa dove sia sepolto. Per desiderio dello stesso sovrano, non è dato saperlo e i mongoli rispettano queste volontà, mi dice Marusya che è di Kharakorum, l’antica capitale della Mongolia, fondata da Genghis Khan. Mi racconta una leggenda sul valoroso condottiero, che prima di entrare in battaglia, si prostrava 9 volte in ginocchio facendo abluzioni con l’airag, la bevanda tipica della cultura mongola nomade. È latte di giumenta fermentato. L’ho provato e posso dirvi che, nonostante abbia un sapore deciso e con una punta di acidità al palato, mi è piaciuto.
Le chiedo se è vero che le donne siano le vere protagoniste del cambiamento oggi in Mongolia. Annuisce compiaciuta.
Mi racconta che Genghis Khan aveva addirittura redatto una legge che prevedeva punizioni per chi avesse posto in schiavitù le donne nelle terre conquistate. Nella bandiera mongola poi ci sono i simboli dello yin e dello yan che rappresentano l’uomo e la donna. La presenza delle due barre orizzontali sancisce la loro uguaglianza. Da sempre le donne nella società mongola hanno hanno fatto la loro parte. Dai tempi dell’impero, quando la moglie o la vedova di un Khan, poteva essere reggente oppure come la principessa Khutulun, la pronipote di Genghis, consigliera politica e militare alla corte imperiale. Di questa principessa guerriera nomade Marco Polo scrive nel suo resoconto di viaggi in Asia: “Il Milione”. Oggi l’abito tradizionale dei lottatori mongoli è un omaggio alla memoria di Khutulun. Questa storia e tante altre raccontano le usanze e le tradizioni della civiltà mongola, “di cui si sa poco all’estero”, mi dice Cecilia, che è nell’organizzazione della visita del Papa ad UlaanBaatar. Il suo arrivo ha aperto un’importante finestra d’interesse su questo Paese. Cecilia si augura che sempre più persone visitino la Mongolia.
Per me sono stati gli incontri, i gesti, la generosità delle persone a riempire i vuoti. Le donne che ho conosciuto mi hanno ricordato che la vita è un esercizio continuo di fare per realizzare cose buone per il futuro!
E da qui, con questa consapevolezza, vorrei far ripartire il mio viaggio! BAYARLAA Mongolia!