Confesso sono una nothombiana, una lettrice alla corte di Amélie Nothomb.
28 romanzi. Uno per ogni anno, degli ultimi 28 anni. Un centinaio di pagine per ogni libro. Dunque brevi, ma taglienti come una lama affilata, che scarnifica la “comédie humaine” fino a mostrare l’orrore di cui è capace. La Nothomb usa parole sporche di terra e di carne per rivelare l’inconfessabile, ma lo fa con impalpabile leggerezza. Le sue storie sono sanguinarie e feroci, non c’è mai un lieto fine, non hanno la pretesa di salvare nessuno. Tout court, raccontano la specie umana e le sue verità e segreti scomodi.
La Biancaneve gotica, l’eccentrica signora sempre in nero, con una tuba calcata sulla testa, si concede una nuova provocazione, forse la più forte. Arriva nelle librerie “Sete”, la passione di Cristo, ma secondo lei. E così ci racconta l’ultima notte di Gesù in cella. In realtà la notte di cui si parla nel libro non esiste perché nei Vangeli, l’ultima notte di Gesù è quella trascorsa nell’orto degli Ulivi con gli apostoli. Nel romanzo viene fuori l’uomo, con la sua confessione liberatoria e dolorosa.

“Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente da morire assetato. Forse è proprio questa la vita eterna”. Il figlio di Dio parla da uomo, s’indigna e mette in discussione il progetto, per lui, “demenziale” voluto dal Padre che pensa di cambiare gli uomini. Viene condannato in croce per il bene fatto. E i suoi accusatori, davanti a Pilato, sono gli stessi che hanno ricevuto quel bene. Scopriamo una paura terrena. Non della morte in sé, ma della morte causata dalla crocifissione. La stessa scrittrice descrive il romanzo come un inno alla fragilità umana, alla gioia del corpo, all’abbandono dei sensi, a quella strana cosa che si chiama Amore. La scrittrice ci descrive un Cristo terreno, dunque, che muore assetato. La sete è la parola nella quale si riassume l’assoluto dell’esperienza umana. Tre sono le cose fondamentali in una vita – ci dice Gesù, che è anche Amélie: amare, morire e avere sete. Provarli significa essere vivi. “Avere un corpo è quello che può capitare di meglio”.

E il Padre (sempre secondo il Gesù della Nothomb) sbaglia a disprezzare tanto il corpo, lui che il corpo non ce l’ha. Quando l’acqua bagna le labbra dell’assetato, in quel preciso istante si riversa un amore assoluto e di meraviglia. Il Cristo della Nothomb è venuto a insegnare questo slancio, nient’altro. E’ stato giudicato un romanzo eretico e poetico. Lei stessa lo definisce “il romanzo della vita”. Forse per lei il più importante. La romanziera confida di desiderare che i suoi quasi 70 manoscritti non pubblicati siano archiviati proprio nella biblioteca del Vaticano. Per il momento lei si accontenta del riscontro della critica. Sfiora il premio letterario Goncourt, il più austero e prestigioso di Francia e si riempie soprattutto di beatitudine nel cenacolo sempre più appassionato e numeroso dei suoi lettori, compresa la sottoscritta.
Vi lascio a un’interessante intervista.