È sempre difficile parlare di morte e di lutto perché è un tema da cui tutti vogliamo scappare, quasi che se non se ne parla non possa sfiorarci.

Sigmund Freud definisce il lutto come una reazione affettiva, emotiva, ad una esperienza di perdita. Una perdita che sconvolge, stravolge e dissesta il nostro modo di vedere il mondo e che ci costringe, dunque, a rivedere la nostra visione del mondo.

Per Freud, quindi, il lutto è l’esperienza dell’assenza di chi amavamo, ma poiché chi amavamo dava senso al mondo, la perdita di cui il lutto è la reazione affettiva è anche perdita del senso stesso del mondo. Freud ha a lungo parlato di lutto e di perdita e ha individuato tre possibili risposte soggettive all’evento luttuoso: la prima reazione è quella cosiddetta “maniacale”, la seconda è quella melanconica, ovvero depressiva, la terza è quella del lavoro del lutto come esito positivo della depressione.

Nella fase maniacale,la persona, travolta dalla grandezza dell’evento, nega sistematicamente che sia accaduto: si tratta di un rifiuto ostinato dell’esperienza della perdita. La persona che reagisce in modo maniacale, negando la perdita, tende a “sostituire”, in tempi molto rapidi, l’oggetto perduto con un altro oggetto. L’oggetto che se n’è andato, l’oggetto perduto, viene cancellato nella sua insostituibilità da un nuovo oggetto. Questo meccanismo serve ad evitare l’esperienza del vuoto e dell’assenza: è un modo per allontanarsi dal dolore psichico che porta con sé la perdita, un anestetico che vorrebbe ricucire la ferita della perdita senza che essa lasci alcuna traccia.

Il secondo tipo di reazione, quella che sfocia nella melanconia, è, anche se pare assurdo, il rovescio della reazione maniacale, la melanconia si trova nella paradossale impossibilità  della dimenticanza. L’oggetto perduto è visto come insostituibile e dunque impossibile da dimenticare. La vita di chi cade nella reazione melanconica è ritirata in se stessa, ha perso lo slancio vitale, è chiusa al mondo, mangiata dall’oggetto perduto. Il dolore quindi accompagna sempre la vita: il lutto non è più un lavoro transitorio, ma una condizione dell’esistenza: la melanconia è la cronicizzazione del lutto.

Vediamo, infine, in che cosa consiste un lavoro del lutto ben riuscito. Lavoro, dal tedesco Arbeit, significa, nell’accezione in cui lo usa Freud, capacità di produrre, di trasformare. Affinchè questo lavoro abbia un esito positivo e ben riuscito servono 4 elementi:

  • In primis serve il tempo: non esistono tempi rapidi, il lutto non può dare luogo a processi di sostituzione. Il problema è che nella nostra società la pausa viene rigettata, il tempo morto visto come tempo perso. Ma senza tempo non c’è possibilità di del lavoro del lutto.
  • Il secondo punto è il dolore psichico: non si può fare il lavoro del lutto senza esperienza effettiva del dolore. Il dolore è la benzina del lavoro del lutto perché è attraverso il riconoscimento dell’irreversibilità della perdita dell’oggetto che si può “andare oltre”. Rendersi conto di tale irreversibilità, però, è estremamente doloroso, come se si perdesse un arto del corpo.
  • Un altro elemento fondamentale del lavoro del lutto è la memoria: è un lavoro struggente, straziante, sollecitato dalla memoria dell’oggetto perduto. Si ricorda chi non c’è più per testimoniare che la sua assenza è stata una presenza.
  • Il quarto punto è quello cruciale, ma anche quello più difficile da concepire: l’oblio. Il lavoro del lutto compiuto, che si realizza, non si può fermare alla memoria dell’oggetto perduto, ma deve poter raggiungere, attraverso la memoria, un punto di dimenticanza. In questo faticoso lavoro si riconosce il carattere insostituibile dell’oggetto perduto ma, dopo aver ricordato dolorosamente il morto, lo possiamo dimenticare. Possiamo dimenticare perché abbiamo incorporato il morto, perché lo abbiamo ricordato, lo portiamo con noi e fa parte di noi. Ed è solo nella misura in cui fa parte di noi che lo possiamo dimenticare.

Anche quando noi incorporiamo l’oggetto perduto e dunque lo possiamo dimenticare, l’oggetto resta comunque sempre irrimediabilmente perduto. La ferita dell’assenza resta nel corpo e nella mente, per sempre. Ma, quando è passato il tempo necessario, quando si è fatta l’esperienza del dolore psichico, quando si è a lungo ricordato, si può dimenticare, perché il ricordo genera la dimenticanza. E quando questo avviene la vita riprende, si può tornare ad investire su di sé e si può addirittura sostituire l’oggetto perduto.