L’immagine che ognuno ha di se stesso viene costruita sulla base della relazione con gli altri significativi e, più precisamente, sulla base dell’immagine che questi altri ci rimandano di noi.
Il meccanismo del rispecchiamento, come meccanismo psicologico fondamentale nella formazione della propria identità, è stato ipotizzato e studiato nei bambini, sin dai primi mesi di vita. Winnicott D.(1971) in una sua opera dice: “il precursore dello specchio è la faccia della madre” .
Nei primi stadi del suo sviluppo emozionale, il bambino è assolutamente dipendente dall’ambiente, che non è ancora stato ripudiato come Non-Me; a tal proposito Winnicott sostiene che per potersi definire IO è necessario che l’individuo si sia strutturato come unità; che ci sia integrazione e che mondo esterno ed interno siano scindibili. Prima che tutto questo possa avvenire, come dicevo, “il bambino non esiste” se non come un essere totalmente dipendente dal suo ambiente, il quale è costituito fondamentalmente dalla cure materne. Tali cure, che Winnicott riassume nel concetto di “holding” (ossia il sostenere fisicamente e psicologicamente il lattante, tenendo conto del fatto che egli non sa che esiste qualcos’altro oltre a Sé), giungono magicamente a soddisfare i bisogni del bambino, grazie all’identificazione e ad un adattamento quasi totale della madre (grazie alle sue stesse esperienze di neonata) con quest’ultimo.
A questo punto è utile tornare al tema della funzione di specchio svolta dalla madre nel corso dello sviluppo infantile. Winnicott afferma: “ora, a un certo punto, viene il momento in cui il bambino si guarda intorno. Forse il bambino al seno non guarda il seno. E’ più probabile che una caratteristica sia quella di guardare la faccia…Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me, di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge“. E continua ammonendo le madri a non dare per scontato questi concetti e a prestare loro attenzione per il bene dei propri figli. Quale è infatti la conseguenza che devono subire quegli infanti con una mamma abitualmente in uno stato d’animo di depressione o chiusa nelle rigidità delle proprie difese? Ella non riesce a contenere il bambino accogliendolo in sé attraverso i propri occhi; in questi casi l’allattamento non costituisce un “rapporto”, ma un gesto meccanico in cui la mamma assume quasi uno sguardo “fisso”, assorta nel suo stato d’animo, presente con il corpo ma assente ad un livello empatico.
Grazie a Winnicott, quindi sappiamo che essere madre significa anche accogliere il bambino, esattamente come fa uno specchio: lo specchio rende, a chi vi guarda dentro, l’immagine di colui che in lui si riflette. Il bambino che può guardare, da un punto di vista psichico, la faccia della madre come si fa con uno specchio, riceve indietro, dagli occhi di lei, l’immagine di sé stesso; questo ritorno costituisce, per l’infante, il nucleo del suo sé, sul quale crescerà e si svilupperà la sua personalità. Ma uno specchio, per restituire l’immagine ricevuta a chi guarda, deve essere in grado di rifletterla: gli specchi appannati o impolverati, concavi o convessi, non sono in grado di rendere l’immagine così come la ricevono, non la riflettono affatto o la deformano.
Winnicott specifica che quanto detto sulla funzione materna di specchio, non riguarda solamente i primi mesi di vita. Il bambino, crescendo all’interno della sua famiglia, sarà certo sempre meno dipendente dal volto materno per vedersi restituito il proprio sé, tuttavia “quando la famiglia è intatta, e continua ad esserlo nel tempo, ogni bambino trae beneficio dall’essere in grado di vedere se stesso nell’atteggiamento dei singoli membri o…della famiglia nel suo insieme” .