Lavì girò la chiave nella porta ed entrò.
Finalmente a casa.
Ogni volta che partiva e lasciava le sue figlie le restava addosso quella sensazione di vuoto che cessava solo con il grande abbraccio in cui si perdevano tutte e tre al suo ritorno.
Nena amava che la mamma, quando tornava dal lavoro, le raccontasse qualche avventura accaduta durante un volo o di una persona speciale che aveva incontrato…
Aspettava di infilarsi sotto le coperte per iniziare ad ascoltare quelle storie.
Anche quella sera Lavì fu grata alla vita, per aver avuto il privilegio di essere madre e averlo saputo apprezzare.
Le venne in mente un volo che aveva fatto tanti anni prima.
Gliel’aveva ricordato una piccola passeggera.
Iniziò a raccontare:
“ Erano circa le tre e trenta del mattino, fuori buio, tanta nebbia e freddo.
Un clima invernale, nonostante il periodo primaverile dell’anno.
Aprii la porta dell’aereo e vidi di fronte a me un luogo desolato e triste.
La poca illuminazione si mostrava soffusa a causa di quella nuvola bassa che si era parcheggiata insieme a noi in quel piazzale abbandonato, quasi complice della missione che andavamo a compiere.
Partimmo da Milano, dopo aver fatto un attento ed adeguato briefing sul tipo di tratta in servizio, sui passeggeri che avremmo portato e su ciò che ci saremmo dovuti aspettare.
Decollammo con l’ aereo vuoto, c’ eravamo solo noi, membri dell’ equipaggio.
Al nostro arrivo, sulla scala, ad accoglierci, due agenti della polizia locale e un addetto alle operazioni di terra. Ci avrebbero fornito assistenza per l’imbarco.
Avevo venticinque anni, ero molto giovane ed emotivamente, forse, un po’ impreparata, o semplicemente troppo empatica e sensibile.
Rimasi profondamente colpita da tutto.
Intorno alla piazzola dove parcheggiammo si intravedeva tanta foresta e dei camion militari, fermi in un’area antistante.
Si poteva quasi provare paura.
Il terminal delle partenze era vicino e si scorgeva dalle porte a vetri, attraverso quella scarsa luce, quasi appannata, movimento di persone.
Dopo aver svolto tutte le procedure necessarie a ripartire, terminato il rifornimento carburante ed ispezionato l’aereo, mi fu biascicata, in un inglese imperfetto, la richiesta di procedere all’imbarco.
I nostri piccoli ospiti, i nostri passeggeri speciali si avvicinarono alla macchina, avanzando tutti in fila per due.
Si presentò il primo accompagnatore, una giovane ragazza, il secondo un uomo di mezza età insieme ad altri due, un uomo e una donna.
I bambini che salirono erano di età compresa tra i quattro e i dodici anni.
Alcuni erano malati, altri camminavano male. Alcuni restavano completamente in silenzio, altri parlavano elettrizzati, altri ancora erano spaventati.
Si davano la mano, mi fissavano con i loro splendidi occhi chiari.
Erano i bambini della Bielorussia che andavano a sanificare le loro piccole membra in Italia per tutto il periodo estivo.
Purtroppo molti avevano subito, dopo tanti anni, i danni delle radiazioni di Chernobyl e i loro corpicini accusavano e manifestavano segni più o meno evidenti dell’ingiustizia ricevuta.
Rimasi talmente scossa da quell’immenso mare di meravigliosi occhi azzurri che mi guardavano, mentre varcavano la soglia dell’aeromobile, che ne conservo ancora oggi il ricordo assai vivido.
L’aria era pungente e loro indossavano vestiti laceri, di taglie sproporzionate, non erano abbastanza coperti per stare al caldo.
Ognuno aveva appuntato sul petto un cartoncino con su scritto il proprio nome, fermato con una spilla da balia.
Alcuni portavano con sè una borsetta o uno zainetto, ma la maggior parte viaggiava con delle buste di plastica o di carta…”

Lavì abbracciava Nena e mentre le parlava ripensò a Denise.
Era una piccola bambina di due anni, che aveva conosciuto quando prestava servizio in una casa famiglia, chiamata La Casa del Sole.
Lavì aveva poco più di diciassette e dedicava il suo tempo a quei piccoli bambini che la vita aveva stabilito dovessero camminare da soli e crescere troppo in fretta. Alcuni non aveva nessuno al mondo, altri erano stati sottratti alle famiglie.
Fu in quel contesto che Lavì provò per la prima volta un forte sentimento d’amore materno ed un profondo senso di tenerezza, che sperimentò di nuovo durante quel volo.
Denise l’aspettava e ogni volta che la vedeva arrivare le correva incontro e allungava la sue braccine per essere presa in braccio.
Non la lasciava un attimo, non parlava, ma la fissava e le accarezzava i lunghi capelli.
Voleva restare con lei, seduta sulle sue gambe, mentre Lavì disegnava con gli altri bambini o leggeva loro una favola.
Lavì sentì una profonda nostalgia…chissà che fine aveva fatto quella piccolina… ne aveva perso i contatti.
“… Mi trovai lì, nel mezzo di una cabina di un aereo piantato in una zona sperduta della Bielorussia con oltre cento bambini che aspettavano fiduciosi di partire e di raggiungere le generose famiglie che li avrebbero ospitati.
Ci fu raccomandato di non somministrare alcuna bevanda eccetto l’acqua.
Distribuimmo solo biscotti.
Ricordo con quanta cura ci avvicinammo ai piccoli, porgendo loro coperte e cuscini, verificammo che fossero tutti cinturati…quindi, pronti al decollo!
Avvertii quanto erano spaesati e spaventati. Alcuni si tenevano per mano, si stringevano, vi erano dei fratellini e altri viaggiavano da soli.
Li avrei voluti stringere tutti in un unico abbraccio…
Durante il volo la maggior parte di loro dormì, nessuno si mosse. Feci spesso dei giri in cabina per controllarli, parlai con gli accompagnatori. Mi fu spiegato che erano tanto stanchi, perché per raggiungere l’aeroporto molti di loro avevano viaggiato svariate ora in pullman o macchina.
Saremmo atterrati a Roma, dove per alcuni non sarebbe ancora terminato il viaggio, ma avrebbero proseguito verso altre città italiane.
Atterrammo alle otto di mattina.
I piccoli sbarcarono ordinati e silenziosi come erano saliti.
Una bimba di circa sei anni, cui avevo lasciato due pacchettini di biscotti, si fermò davanti a me, prima di scendere dall’aereo, porgendomi una bustina di carta e sorridendomi disse “Grazie!”.
Quel dono era una piccola arancia incartata in un fazzolettino.
La più bella, dolce e tonda arancia che abbia mai avuto in tutta la mia vita!
Buona fortuna piccoli cuori! ”

Nena aveva interrotto diverse volte la mamma, mentre raccontava.
Era curiosa, le venivano in mente molte domande.
Lavì ripensò con amore a quei bambini e al suo, alla sua stellina che brillava nel cielo e ancora una volta disse “Grazie!” per la vita delle sue figlie.
Era certa che niente accade per caso, che tutti noi siamo attori protagonisti delle nostre esistenze e che il percorso che ci illudiamo di intraprendere “liberamente” in qualche modo è già scritto, però abbiamo sempre tanto da imparare e questo fa la differenza.
La differenza nell’approcciare ogni volta alla vita e alle opportunità che questa ci offre.
Oggi racconta alle sue ragazze di quei bambini e si scioglie di fronte alla tenerezza con cui partecipano a quel racconto, in modo particolare Nena, che ha voluto disegnare ciò che la sua immaginazione le ha suggerito durante l’ascolto.
Noi donne potremmo anche avere formazioni, culture ed educazioni differenti, che probabilmente possono influenzare tutta la nostra vita, ma possediamo anche un grande dono, il nostro istinto, davvero speciale, che ci spinge ad accudire e ad amare.
E questa è la sola forza che muove tutte noi!