E’ già l’imbrunire quando mi rendo conto di essermi trattenuta oltre il dovuto in paese.
La Contea di Harcourt.
Mi ci vorrà oltre mezz’ora per rincasare. E dovrò pedalare di buona lena per non far preoccupare la signora Fermont, la vecchia governante del castello. Per me Filomène. Già me l’immagino: le mani sui gomiti, impettita in avanti, il mozzicone di sigaretta tra le labbra vermiglie e gli occhi piccoli, piccoli che sembrano sporgere come due biglie nere dietro la pesante montatura degli occhiali. Avrà provato a chiamarmi allo sfinimento ed è per questo che quando, nelle mie uscite vespertine, decido di spingermi fino in città non porto mai con me il telefono. Del resto odio il cellulare perché è l’arma che ognuno di noi possiede per esercitare il controllo sull’altro e allo stesso tempo subirlo.
Filomène ha fatto del rigore il suo vessillo e questo ha compreso, negli ultimi dieci anni, una gestione prussiana del castello e dell’arboretum che convivono nell’immensa tenuta d’Harcourt, confinante con il bosco più impervio. La donna ha fatto sì che il mistero dell’antica dimora, legata alle oscure vicende dell’Anno Mille e alle storie di streghe attirasse visitatori e curiosi, fruttando danaro e sopravvivenza alla proprietà dei miei antenati. Filomène mette questo zelo certosino nella cura del castello che comprende la sua manuntenzione con gli interventi di restauro all’interno e di puntellamento all’esterno dove i muri e le pareti sono più vulnerabili. Un’opera di questo tipo non può prescindere da regole e tanta disciplina che l’anziana custode mette in ogni cosa, a partire dall’organizzazione della cucina.
All’inizio tutto questo mi piaceva. Era una routine rassicurante, lontana dalle nevrosi dei miei pazienti ma non al riparo dalla mia vera natura. In tempi lontani mi avrebbero legata a una pira e bruciata viva ma oggi posso addirittura incedere fino all’altare della chiesa del piccolo centro abitato, sorto ai piedi della tenuta d’Harcourt. Ci passo quasi sempre, tirando dritto, ma questa sera qualcosa mi spinge ad entrare. Il cane nero resta di guardia alla mia vecchia bici. Già sul sagrato la musica s’impone accompagnata dalle litanie della processione dei fedeli che segue il prete della prima fila con il pesante ostensorio.
L’oggetto contiene l’ostia consacrata nel grembo di una lunetta di cristallo. Una corona di raggi in oro massiccio incornicia simbolicamente il Corpo di Cristo esposto alla venerazione di quella platea di così tanta barocca devozione. Sono quasi tutti in ginocchio e l’atto di genuflessione si ripete di banco in banco mentre sfila il corteo sacro. C’è chi oscilla piegandosi in avanti per poi ripiegare all’indietro. Hanno tutti gli occhi chiusi e le braccia allargate. Tra le dita i grani del rosario. I fedeli pregano per la remissione dei peccati e per la salvezza eterna che la santa particola, ora nel ventre dell’ostensorio sull’altare, saprà dare a chi crede.