A “Uccidere il padre” della scrittrice Amélie Nothomb (per parafrasare il titolo di un suo romanzo) è stato il cancro in tempo di pandemia. Quel libro è una metafora della crescita. Di come un figlio si affranca dalle aspettative dei suoi genitori per prendere la sua strada nel mondo.

E la Nothomb lo fa davvero: uccide la volontà del padre che avrebbe immaginato per lei un futuro in politica.La Nothomb invece scrive e scrive pubblicando 20 romanzi negli ultimi 20 anni. La scrittura la trasforma  nell’arguta narratrice di quella”Comedie Humaine”, tragicamente grottesca e cinica. La Nothomb diventa l’eccentrica dama in nero, con gli occhi bistrati di nero e la tuba nera calcata sulla testa, da sempre.

La Nothomb è una profetessa della fragilità umana, che non s’impasta di buonismo, al contrario mostra come l’uomo dolente, la vittima, possa diventare un mostro. Il finale delle sue storie ci lascia con una punta di amaro in bocca, insufficiente per la nostra redenzione, ma abbastanza per la nostra riflessione. La sua scrittura, sardonica e surreale, non guarisce ma ci aiuta magicamente a dubitare della realtà, a metterla in discussione.

E’ proprio come una magia: tutto è sotto i tuoi occhi ma non vedi nulla. Anche la lettera della Nothomb per la morte di suo padre, lo scorso 17 marzo, ci offre lo spunto per guardare oltre. “Non so cosa sia la morte -sono le parole della romanziera- ma mi piacerebbe pensarla come un’apertura senza limiti”. Proprio il contrario del confinamento! Una verità che, al contrario, celebra la vita anche quando questa è tagliente e disperata. Un messaggio positivo di una Biancaneve noir, di una pessimista gioiosa, così come la Nothomb si definisce, e che mi piace tantissimo!