Ci sono piatti che prepariamo nei giorni di festa, i piatti legati alle feste religiose, i piatti estivi e quelli invernali, quelli che si preparano veloci, veloci, senza accendere il forno perchè fa caldo, quelli per cui serve impastare, attendere, infornare, le calde minestre per i giorni di freddo. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, le stagioni, le temperature e l’umore.
Qui no. Cucinare è una tortura e non giudico più quelle casalinghe che si fanno aiutare in cucina da una schiera di serve, sette giorni su sette e che stanno in ansia se una di loro ritarda o non si presenta o telefona, anche loro hanno tutte il cellulare, per dire che oggi è malata.
A cominciare dalla colazione, quasi sempre vegana: ruti (una specie di piadina) con misto di verdure stufate, l’immancabile frittatina, stracolma di peperoncino e cipolle, e qualcuno non disdice un bocconcino di chicken curry della sera precedente. A fare le piadine, il lavoro più faticoso, che si fa accovacciate per terra su una specie di tagliere rialzato, ci pensa la domestica, ovviamente. Quando la casa si svuota, chi va al lavoro, chi a scuola, si inizia a preparare il pranzo. Si ricomincia. Taglia, affetta, lava, risciacqua verdure, carne, pesce; taglia, affetta, lava, risciacqua e schiaccia con l’apposito arnese cipolle, zenzero, aglio ovvero la base di ogni curry.
Si passa alle spezie: curcuma, chili, cumino e coriandolo. La vera cuoca bengalese non usa mai quelle in polvere pronte e confezionate, ma acquista i semi, li fa essicare se necessario in terrazzo o sul tetto di casa e poi li passa al mini mortaio che tutte hanno in cucina. Questi sono tutti lavoretti che spettano alle domestiche, alla padrona di casa spetta di solito il compito di girare il mestolo nella pentola; ciònonostante lo stress di dare ordini a destra e a manca e, assicurarsi che il lavoro venga eseguito come desidera, stanca.
Non esistono praticamente i piatti unici, quelli che schiaffi in forno, te ne ricordi dopo due ore, e sono pronti. Non esistono le insalatone, le uniche foglie di salata che ho sempre visto, compaiono solo come decorazione intorno a un bel vassaio di riso condito, che poi nessuno tocca; non esiste la caprese, non esistono le patate bollite e condite con un po’ di olio e prezzemolo, neanche l’uovo è mai solo lesso!
E poi quando piove bisogna fare il kichuri.
Il kichuri sta alla pioggia, quella dei monsoni si intende, come il prosciutto crudo al melone.
Se chiedete a chiunque qual è il ricordo piu bello che hanno di quando erano bambini, tutti risponderanno: mangiare kichuri caldo in terrazzo a guardare, e ascoltare, la pioggia che cade. E’ un rito di quando si è piccolo e un ricordo che scalda il cuore da adulti.
L’ingrediente base è il riso pillau, quello piccolo e profumatissimo cucinato insieme alle lenticchie gialle e rosse che vengono all’inizio tostate in padella con un po’ di olio, spezie e la solita poltiglia di aglio, cipolla e zenzero. Il segreto per una riuscita perfetta e aggiungere l’esatta quantità di acqua così che quando si è consumata del tutto il riso è cotto. Mezzo bicchiere in più e diventa melmoso, mezzo in meno si brucia.
A questo si aggiungono tradizionalmente un uovo lesso (e condito), melanzane spesse almeno un centimetro cotte alla griglia con abbondante olio, curcuma e chili (che non deve mancare mai), achar o chutney (quella specie di marmellata speziata che può essere fatta con aglio, mango verde, olive o tamarindo, due fette di pomodoro crudo, due fette di cetriolo belle spesse. Se nel kichuri non vengono messe le verdure (di solito patate, carote, piselli) si possono stufare separatamente. Il riso e le lenticchie sono ben condite con abbondante curcuma, chiodi di garofano e cardamomo.
Ora le piogge monsoniche sono finite, è finito anche l’inverno e stanno arrivando le giornate calde ma ventilate di marzo e aprile. Bisognerà aspettare il prossimo anno per vedere qualche goccia di pioggia e preparare un altro bel piatto di kichuri.






