Quando venni in Bangladesh la prima volta non conoscevo ovviamente il Bengali, nè scriverlo tanto meno parlarlo. Avevo imparato da sola l’alfabeto, ma non i gruppi consonantici; avevo imparato anche come scrivere le vocali per poi scoprire che in realtà era tutto sbagliato perchè non avevo capito che le vocali, quando si trovano all’interno di una sillaba si scrivono in un modo e quando sono invece indipendenti in un altro. Tutto da rifare.
Il Bengali l’ho imparato ascoltandolo, deducendone le regole di grammatica, confrontandolo con le lingue che già sapevo e scoprendo ahimè anche in questo caso che tutta l’esperienza che avevo accumulato dalle medie all’università mi sarebbe servita solo per constatare che se avessi voluto imparare questa lingua avrei dovuto cominciare tutto da zero, o quasi.
I benefici di imparare una lingua sul posto e non sui libri di testo sono molti, in primo luogo la pronuncia, l’intonazione in secondo luogo la frequenza di determinati termini. All’inizio guardavo le soap opera locali.
Una tortura.

Trame improponibili, personaggi caricature di se stessi, qualità di recitazione scadente. Erano orrende, lo sono tuttora a dire il vero, ma per imparare la lingua, il mio unico scopo, capii che andavano benissimo. Ognuno diceva le proprie battute non appena un altro personaggio aveva terminato le sue. Ricordo numerose scene in cui i personaggi erano tutti in fila, prima parlava uno, poi la telecamera si spostava sull’altro, poi sull’altro ancora senza mai che i dialoghi si accavallassero. Pause interminabili tra una battuta e l’altra in cui facevo a tempo a chiedere a mio marito ‘che ha detto?’ trascrivere le parole o le espressioni che mi interessavano, poi attaccava l’atro e cosi fino alla fine della puntata. Mi accorgevo pian piano che le parole segnate erano sempre le stesse e sarebbero state quelle che poi avrei sentitp fuori, nelle conversazioni di tutti i giorni. Cosi facendo ho imparato in fretta. In realtà usavo sempre le stesse parole, ma rimescolate in costrutti sintattici diversi e cosi facevo sempre la mia bella figura. Poi scoprii che bastava aggiungere il verbo kora (che vuol dire fare) ad un sostantivo in inglese per trasformare questo sostantivo in un verbo ed indicare quindi un’azione. Per esempio smoke kora diventava fumare, accept kora accettare e cosi via. I bengalesi usano molte parole in inglese anche quando parlano normalmente tra di loro ed è un fenomeno che non conosce barriere sociali.

Anche un rickshawalla conosce il significato di thank you, sorry, house number; e infatti se usi dhonnobad, dukito e bashar nombor, si mettono a sorridere imbarazzati non tanto per loro stessi quanto piuttosto per te. Ho imparato dopo parecchi anni che dukito voleva dire sorry e che suprobad voleva dire good morning per poi rendermi conto che non mi sarebbero serviti a niente perchè non li usano mai. Lo stesso per esempio per chair e table. Una volta chiesi indispettita a mia cognata ‘ma santo cielo, non avete una parola in Bengali che indichi sedia e tavolo!’ Ci pensò almeno trenta secondi prima di dirmele. Anche ora, mentre sto scrivendo, sottopongo mio marito allo stesso test. ‘Come si dice bag in Bengali?’ Ci pensa un po’ su e, siccome ha poca pazienza, dice ‘Non lo so’. Imbarazzato per la brutta figura, vedo che lo sta cercando su google. ‘Tola!’ ‘No’ gli rispondo io, ‘Quella è la borsa che usi per andare al mercato, io voglio sapere come si chiama la borsa o borsetta da donna. ‘Oh, ho capito, vanity bag!’
Sono contraria per principio all’uso di anglicismi quando esistono benissimo degli equivalenti in italiano, il primo che mi viene in mente ora ora è per esempio lockdown; qui, purtroppo 200 anni di colonizzazione britannica hanno lasciato il segno anche, ma non solo, nella lingua tanto che non solo vengono utilizzate le parole inglesi ma queste possono essere modificate e adattate alla grammatica Bengalese per essere piu’ comprensibili. Per indicare lo stato o il moto a luogo, per esempio, basta aggiungere una -e alla fine della parola o -te se la parola termina in vocale. Cosi quando chiedo a mia figlia ‘Dove sei?’ lei mi risponde tranquillamente ‘Kitchen-e’ oppure ‘Dove sei andata? ‘Cinema-te’.
Oggi però ho visto che una delle prime parole che ho imparato, se non forse la primissima, è entrata addirittura a fare parte dell’Oxford English Dictionary. Questa parola è achha e vuol dire ok, va bene. Si usa qui, ma la capiscono anche in India, Pakistan e molto probabilmente anche in Iran visto che è di origine persiana. La parola inoltre viene accompagnata da un gesto tipico del capo che va reclinato leggermente verso sinistra. A volte basta solo questo gesto del capo per far capire che va bene, che quello che vi hanno chiesto o detto vi trova d’accordo. Anzi se volete sottolineare che siete veramente d’accordo al cento per cento allora mentre reclinate il capo, magari un po’ di piu’, potete anche socchiudere gli occhi per un secondo.

Quando gli viene chiesto un favore, il Bengalese dice raramente di no – e quelle poche volte che succede, lo fa con quel dondolio tipico della testa che non riesci mai a capire se è veramente un no o un si – e ti risponderà sempre achha anche quando gli chiedi di aspettarti che torni subito pur sapendo che ci metterai mezz’ora o di fare sette piani di scale a piedi al posto tuo perche’ tu non ne hai voglia e forse è anche per questo suo uso smoderato che è diventata ora parte del lessico inglese.
Un’altra parola o meglio espressione che ho imparato subito è stata questa: bebosta kora jae. E’ un’espressione quasi intraducibile perchè oltre a non avere un diretto equivalente in italiano, sottintente fenomeni o atteggiamenti culturali che sono propri di queste parti. L’espressione significa praticamente ‘si può fare’, si puo’ trovare/escogitare il modo di…’, ecc. ecc.. Con gli anni ho capito che non c’è limite, legale o illegale, a quello che ‘si puo’ fare’ in questo paese, il tutto concentrato in queste tre semplici parole. E’ un’espressione che mi piace tantissimo e quando la sento usata da qualcuno ora mi metto quasi a ridere perchè l’esperienza mi dice che sotto sotto c’è sempre un trucchetto, un imbroglio o una bella fregatura.

Entri in un negozio di vestiti, prendi in mano qualcosa, la giri e rigiri per vedere se è tutto a posto, e ti accorgi che c’è una piccola macchia. Non si preoccupi, signora, bebosta kora jae! Parcheggi in sosta vietata o in doppia fila, non ti accorgi che il vigile era proprio dietro di te, ti becchi una bella multa di 2500 Taka; chiedi perdono, prometti di non farlo piu’, gli fai notare che ci sono almeno altre dieci macchine in doppia fila finchè lui ti dice ‘Achha, madame, bebosta kora jae’. La multa da 2500 scende a 1500 Taka che il vigile si mette direttamente in tasca. Vuoi passare l’esame di ammissione all’università ma ti senti un pochino stupido e pensi che non ce la farai mai? ‘Bebosta kora jae’, ti dice il broker che hai contattato e che guarda caso ha ricevuto dall’amico che lavora nelle stamperie del governo la copia del test d’ammissione; porti tua suocera in ospedale perchè ha la pressione a 200 ma non ci sono piu’ letti liberi in stanza singola perchè lei non vuole dividere la camera con nessuno? Bebosta kora jae, ti dice con compassione l’infermiere; hai ucciso qualcuno ma non vuoi passare il resto dei tuoi giorni in prigione? Bebosta kora jae!, ovviamente in tutti i casi al suono di monetine suonanti.