Lo scorso mese la poetessa Alda Merini avrebbe compiuto 85 anni e forse avrebbe già fatto il vaccino. In che modo i suoi versi avrebbero partorito la sofferenza della pandemia? Sarebbe riuscita a scorgere nuovamente Dio, lei che aveva detto: “Avere fede significa fidarsi del gioco della vita, senza capire perché la vita è così”. Alda Merini è tra i grandi dissidenti della letteratura italiana. Quelli che il giornalista Gianni Maritati chiama nel suo libro “Cristiani Contro”. Maritati sceglie dodici scrittori in un arco temporale che va da Da Dante a Camilleri.

Lirici appassionati e narratori che scrivono contro i mali dell’uomo, contro l’oscurantismo religioso, contro le ingiustizie di un’epoca buia. Quel “contro” diventa quindi una ricerca “per” un ritorno alla vera spiritualità, a un’esperienza di fede consapevole e pulita. Come nel suo primo volume “Cristiani Contro” del 2017 (già recensito in Libramente, https://www.isegretidimatilde.com/cristiani-contro-di-gianni-maritati/), gli scrittori scelti da Maritati hanno un approccio creativo al tema del sacro. La loro è “un’esperienza di fede che anche quando viene superata provoca nostalgia”, sono le parole dell’autore. La loro critica è una ricerca di un ideale alto di Dio che si scopre vicino, tra quelli che Alda Merini chiama i “veri credenti”. Custodi di una fede che non cede mai sotto gli effetti della follia, del manicomio, della sofferenza. La poetessa crede in ciò che Dio le ha dato: la vita, i sensi, la gloria letteraria. “Avere fede – per lei – significa ringraziare dunque per quello che si ha”. Un gesto di umiltà che tutti dovremmo cercare di avere. Alla figura di Cristo, riflesso del suo stesso dolore, dedica questa bellissima preghiera.

 

 

Un altro cristiano contro è Torquato Tasso. Nell’opera l’Aminta il poeta celebra la forza universale dell’amore che rende tutti uguali. In questa favola, in cui maestra è la natura, c’è anche il dramma pastorale: la condanna del sesso rubato. Il tentativo di stupro da parte del satiro contro la ninfa che si sta bagnando alla fonte. In realtà il poema è un’invettiva contro l’ipocrisia della società civile, contro la corte cinquecentesca degli estensi a Ferrara. C’è dunque un’amara coscienza dei tempi presenti e, tra le righe dei versi, vibra la protesta contro un cristianesimo che non lascia spazio alla libertà delle scelte e alla forza dei sogni.

Tra i grandi della letteratura, nel libro di Maritati, c’è anche Andrea Camilleri. Lo scrittore ha più volte ammesso nella sua vita di non essere credente. Da giovane era stato in collegio dai preti, al Convitto vescovile di Agrigento ma questo non era servito a far maturare in lui la fede. Ma anche se Dio non è mai stato nella sua vita, c’è stata sicuramente l’idea di spirito. E’ lui stesso a dire: “Non possiamo non ritenerci cristiani per quanto riguarda la condivisione di alcuni valori fondamentali.

Li riassumerei così: sono la via, la verità e la vita”, che è poi Cristo. E’ questa onestà intellettuale a spingerlo ad avere un gran rispetto per le persone di fede. Nel suo romanzo “Le pecore e il pastore”, ricorda un fatto realmente accaduto in Sicilia: il sacrificio di dieci suore di clausura che si lasciano morire di fame e di sete in cambio della guarigione del vescovo di Agrigento, ferito in un attentato mafioso nel 1945. Indiscutibile per Camilleri è la potenza del libero arbitrio.

Per Cesare Pavese invece il desiderio di credere è fortissimo.
“Eppure crederci bisogna. Se non credi in qualcosa non vivi”, scrive nel romanzo autobiografico “La casa in collina”. L’invocazione della fede per sanare il disagio esistenziale, la solitudine, il fallimento dell’impegno socio-politico. “Hanno ragione i preti. Abbiamo colpa tutti quanti: tutti dobbiamo pagare”, scrive ancora. L’idea della morte vince su tutto. Si toglie la vita pochi mesi dopo la sua vittoria del Premio Strega. Per lui la morte è una colpa e un mistero. Irrinunciabile nella ricerca della verità.
Lascia una frase-confessione: “Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?”

In quel poi, affidato all’Assoluto, cerca espiazione Maria, la protagonista del romanzo, “Storia di una capinera” di Giovanni Verga. L’opera tratta il tema della monacazione forzata e la difficile condizione femminile del tempo. Lo scrittore indaga nella psicologia di Maria, nella sua personalità scissa e tormentata che le fa temere la divina punizione.

 

 

La capinera è una sorta di passero e diventa nel libro il simbolo della debolezza indifesa della protagonista di fronte alle ingiustizie del mondo, di fronte alla libertà negata. Tra le pagine si sente quel grido disperato verso un Dio misericordioso a cui si accompagna il bisogno di una fede spontanea del cuore e della mente. Quel tanto agognato libero arbitrio che dovrebbe saper mettere al primo posto l’altruismo e la generosità, per dire che siamo tutti cristiani non perché battezzati, ma per vissuto, nel nome della carità universale.