Il suono della sveglia arrivò come una pugnalata. Strano perché non dormiva da un pó, giusto per portarsi avanti con l’odio verso la sua vita e quel doversi alzare con il buio per andare al lavoro. Perché la passione diventa un blablabla senza senso, quando e’ la vigilia di Natale e fuori e’ buio pesto e uscire da sotto le coperte richiede tutto il coraggio che ci vuole ad attraversare il ghiaccio della propria infelicita’. “Che poi basterebbe una stufa” – penso’, con il naso nascosto sotto il piumone giallo e la borsa dell’acqua, ormai gelata, ancora attaccata ai piedi. Eppure amava quella casa, la sua prima “da sola”, senza coinquilini, senza fila al bagno, senza tazze sporche nel lavandino. Pero’ fredda assai e con spifferi da tutte le parti.
Uscire in strada era quasi una liberazione. Almeno c’era quella curva di collina affacciata sul mare, il golfo piu’ bello del mondo e il Vesuvio verso il quale sentiva rispetto. Mannaggia alla morte, quanto amava quella citta’! In maniera carnale. Se gli fosse capitato a tiro, pero’, chi diceva che a Napoli fa sempre caldo, gli avrebbe fatto una paliata a notte a notte. La Vespa, tanto per non cambiare, nemmeno ci pensó a partire e cosí lei si avvio’ per la discesa, lemme lemme, guardando la passione impressa in quei primi chiarori che squarciavano le ombre. E quando il motore riprese coraggio e calimma, come sempre, le sembro’ musica e comincio’ a cantare.
Al semaforo di Mergellina si fermo’ al rosso, cosi, giusto per cazzimma e per fare incazzare quello dietro che doveva tenere proprio fretta assai. Lei cantava e guardava i pescivendoli che – come da tradizione – erano gia’ li’, a esibire capitoni e fasulari per le tavolate della Vigilia. “Signuri’, signuri….” La voce la distolse dal ricordo di un mercato di tanti anni prima, con la mano stretta a quella di sua madre, imbronciata come ora, ma senza protestare che se no, poi, Babbo Natale si stizziva e non si fermava a portare i regali. “Signuri – disse ancora la voce – ma voi perche’ cantate?”. Lei lo guardo’ e fu stupita dalla bellezza che ne’ le rughe, ne’ i segni del mare, avevano minimamente intaccato. “Come perche’ canto?” rispose curiosa, mentre il semaforo aveva cambiato colore altre tre volte. “Signuri’, a quest’ora del mattino si canta per due motivi: o p’ammor o per raggia”. Voleva rispondere per rabbia, ma si vergogno’ perche’ c’era tanta bellezza intorno che la rabbia non c’azzeccava niente e lei, fra tanti difetti, aveva un pregio grosso assai, sapeva sempre mettere insieme le cose, pure quelle piu’ distanti, in modo che sembrassero un capolavoro. Come quando cucinava e s’inventava cose, come aveva visto fare a sua madre per anni: lei addirittura inventava sulle invenzioni.
“Canto per amore” e, dicendolo, le sembro’ ironicamente la verita’ piu’ assoluta che avesse mai pronunciato. Per amore. Cos’altro poteva mai sentirsi dentro, fino alle viscere, fino a stringerle il cuore e l’anima facendola stare in quella citta’ da sola, provando a seguire la sua passione, il giornalismo, senza potersi permettere nemmeno una stufa, se non amore? Amore folle e meraviglioso. Amore che in napoletano raddoppia la “m” che se no, sembra solo una sbandata da quindicenni. “Signuri’, lo volete un po’ di caffe? Jamm, fermate sta Vespa che vi state congelando”. Fu un attimo, un colpo di testa, come quei gesti che si compiono di riflesso, senza pensare e, la Vespa era gia’ parcheggiata, senza nemmeno la catena, che tanto “siamo quattro di noi qua”. “Signuri’, ecco il caffe’. Mi dovete scusare che e’ gia zuccherato ma io me lo porto da casa nel thermos perche’ mi piace piu’ di quello del bar”. Lei sorrise. A Napoli aveva imparato che era sacrilegio mettere lo zucchero dopo il caffe’, una di quelle cose che se la fai, ti guardano carichi di pieta’ e scrollando le spalle pensano “maro’ sti’ furestieri, manc’ o’ caffe s’ann comm se bev”.
Mentre sorseggiava il liquido bollente, guardo’ quella luce che rischiarava il golfo, la calma, l’aria gia’ densa di vita, di quello scorcio di vista che era la sua forza, la sua ispirazione, la sua passione. Nemmeno si accorse che Alfredo, cosi si chiamava il pescivendolo, si era allontanato. Solo pochi passi. Torno’ con un tovagliolino di carta, appena socchiuso nel palmo della mano, come fosse un vassoio di fine argenteria pieno di ambrosia. “Signuri’, mangiatevi due struffoli. Mia moglie li ha fatti ieri sera perche’ lo sa che sono il mio dolce di Natale preferito”. Glieli passo’ con una tale solennita’ che, per un momento, penso’ che si sarebbe trasformata, come per magia, in Campanellino e avrebbe finalmente cominciato a volare spruzzando polvere magica intorno. Erano piccoli e pieni di miele e con sopra code di cioccolato colorate e qualche confetto. Nemmeno sotto tortura avrebbe potuto aprire la bocca e, invece di riempirla con uno di quei napoletanissimi decori natalizi, dire “veramente, a me non piacciono”. Sarebbe stato come dire a un bambino che la Befana non esiste e non e’ nemmeno la signora del piano di sotto, quella brutta e sempre incazzata, e i giocattoli li comprano mamma e papa’ o al massimo li mandano le Ferrovie dello Stato, come quando lei era bambina, perche’ suo papa’ era ferroviere.
Sarebbe stato come quando, lui, l’amore senza nemmeno aggettivi, l’aveva guardata e le aveva detto: “Ho deciso di accettare quel lavoro a Parigi, vado via. E ho bisogno di andare via da solo”. Glielo aveva detto mentre il mare, agitato da un temporale estivo, sembrava voler arrivare fino alla loro camera, dove, seduti sul bordo del letto, come se non gli appartenesse piu’ il diritto, concesso agli amanti, di mettersi comodi nel mezzo, stavano spezzando via le catene della passione, sciogliendole a una a una nel solvente della paura del domani. Lei lo ascoltava e ascoltava il mare, e lo implorava di venire a prendersela e a trascinarla via, lontano. Lontano dalle parole che uscivano da quella bocca che l’aveva sempre baciata di miele e ora l’avvelenava. Ascoltava lui e ascoltava il mare. “Signuri’, e mo’ perche piangete?”. Con il tovagliolino stretto in mano, non si era nemmeno accorta di essere volata via, lontano, come Campanellino, come se quegli struffoli avessero fatto, davvero, gia’ un miracolo. “No niente, e’ solo il vento”, menti’, sapendo che Alfredo non l’avrebbe mai contraddetta, perche’ aveva gia’ capito tutto quando le aveva chiesto perche’ cantava.
“Angela” disse “mi chiamo Angela”, rispondendo a una domanda che era rimasta silenziosa nell’aria, sospesa in quel momento che sembrava così irreale, eppure era la cosa piu’ vera vissuta negli ultimi mesi, tanto da sentirla fin dentro alle viscere. Come se il mare, poi, se la fosse davvero trascinata via quella notte, portandola fino a li’, fino a quel momento: un viaggio breve da Posillipo a Mergellina, eppure lunghissimo e doloroso. Gli struffoli, intanto, si scioglievano in bocca come quei baci di miele con cui lui l’aveva amata per anni di luce, mai fioca. Adorata. Baci di miele e diavoletti di cioccolata colorati.
“Angeli’ – disse Alfredo – lo sai qual e’ il segreto degli struffoli? Devono essere piccoli, cosi il miele li ricopre meglio e quasi diventa una cosa sola con la pasta fritta. Mia madre li faceva cosi: noi a casa soffrivamo la fame, tanta fame. A Natale, pero’, gli struffoli erano il nostro dolce e il nostro gioco. Coi miei fratelli e sorelle aiutavamo a fare le palline e mamma’ friggeva; ci passavamo una serata per realizzare quella montagnella che mettevamo sul piatto “buono” e che doveva durare dalla Vigilia fino a Santo Stefano. Quella mia moglie mica li sapeva fare. Quella mia moglie e’ tanto brava, ma e’ di Genova. Io pero’ l’ho fatta esercitare e mo’ e’ la maestra degli struffoli, proprio come se fosse una di noi”.
Lei ascoltava e mangiava e pensava a sua madre e al fatto che non le aveva mai dato soddisfazione con gli struffoli dicendole sempre, quasi in malo modo, che le facevano schifo. Sua madre che la tormentava sempre con i capelli spettinati e che, pure, quando le veniva la febbre forte, di gola, passava le ore a cambiarle gli impacchi di aceto e patate sulla fronte. Forse in quel momento stava gia’ sveglia ad arrotondare struffoli, come sempre. Per garantire a tutti, a una famiglia grande e allargata, che il Natale fosse sempre “secondo tradizione”, perche’ non c’e’ nulla di piu’ rassicurate delle cose che si ripetono, come le favole, sempre uguali, sempre bellissime.
E mica era colpa di sua madre o di Alfredo o di quel mare che odorava di sale e alghe, se poi lui le aveva negato la sua bocca di miele, se le aveva tolto il cielo e le aveva rimesso un tetto basso sulla testa, se le aveva tolto l’infinito e le aveva bloccato lo sguardo con un muro alto. Se le aveva preso la vita, senza nemmeno ucciderla, che sarebbe stato meglio. L’aveva ammazzata, lasciandola viva. Non era colpa di nessuno, pero’. Era solo conseguenza inevitabile della felicita’. Quella felicita’ che l’aveva travolta all’improvviso mentre leggeva, e lui si era fermato sulla porta e le aveva detto “vuoi bere?” “si grazie”, aveva risposto lei. Lui, aveva fatto per andarsene e poi si era girato e aveva aggiunto, come fosse cos e’ nient , “a volte penso proprio di amarti”. E lei lo aveva guardato e aveva spostato gli occhi sulla pagina di libro, senza distinguere piu’ una sola parola, solo concentrata a ritrovare il battito di quel cuore impazzito, provando a placarlo almeno un po’, perche’ non voleva che lui ne sentisse il rumore, voleva che nessuno sentisse quel rumore che poteva spezzare un incantesimo neppure atteso. Lui l’amava. E la bocca sapeva improvvisamente di miele, anticipando i baci a venire. No, non era colpa di nessuno se, ora, era come morta. Perche’ l’amore non e’ mai innocuo, nemmeno quando dura una vita intera; quando l’amore arriva, ti scava dentro, ti plasma, ti riempie, ti avvolge, ti solleva, ti da’ un senso, si scioglie come miele, a bagnomaria, prima di confondersi con le palline fritte e diventare altro, altro da se’. No, l’amore non e’ mai innocuo. Solo gli sciocchi di cuore possono avventurarsi nella stagione dell’amore pensando di uscirne illesi. Per fortuna. Nel non uscirne illesi, c’e’ tutto il senso di tanta felicita’. E forse Alfredo, vedendola ferma li’ al semaforo, mentre cantava alla luna che tramontava nel golfo, l’aveva vista cadavere e aveva voluto riportarla in vita.
In quel momento, infatti, mentre il miele ancora le faceva attaccare la lingua ai denti, senti’ per la prima volta, dopo mesi, di essere viva. Dolente. Ferita. Tagliata a pezzi, anzi. Vuota. Eppure quel vuoto era tutto, perche’ era da riempire come ora lo stava riempiendo Alfredo con quel suo miracolo natalizio. In quel pugno di struffoli aveva ritrovato, suo malgrado, il sapore di miele dei baci.
E sorrise.
Si era fatto giorno. I clienti avevano cominciato ad affollare la strada. Abbraccio’ Alfredo, quasi sorprendendolo “Buon Natale e grazie”. “E di che? – rispose lui – tutti abbiamo sofferto la fame e, quando hai fame, ti senti come se fossi un po’ morto”. Risali’ in Vespa, prese il cellulare e compose un numero: “Mamma, stai facendo gli struffoli? Per me senza canditi. Ci vediamo stasera, ti voglio bene”.