(questo articolo e’ stato pubblicato su Huffington Post USA in inglese e su Huffington Post Italia nel 2016)

Mia madre, Maria Pia, ci ha lasciati il due luglio, alle quattro del mattino. A New York era ancora il primo luglio ed uno dei temporali più violenti che ricordi, da quando vivo qui, stava turbando la mia notte. Lampi e tuoni erano terrorizzavano Dorothy, il mio cane, ed io mi sentivo pervasa da una sensazione di panico e angoscia. Senza una motivazione razionale, ho iniziato a sferrare pugni contro il muro piangendo ed esclamando: “Non ce la faccio a sopportarlo, non ce la faccio!”. A migliaia di chilometri di distanza, tra le braccia di mio fratello, mia madre stava morendo, tradita da un cuore debole. Per una volta, in tutta la sua vita, il suo cuore si è rivelato “debole” e questo le è stato fatale.

Mia madre era una guerriera. Ha sconfitto, senza paure, malattie, difficoltà e dispiaceri restando sempre forte, senza mai perdere la sua dolcezza. Le discussioni ed i litigi avuti durante la mia crescita, restano epici. Non mi sono mai arresa alla sua volontà di pettinarmi i capelli con cura e garbo. Per molto tempo, ho lasciato che i miei ricci diventassero una sorta di dichiarazione contro il suo lato conservatore.

Fino a quando non siamo diventate due donne profondamente connesse: ero lì con lei ogni volta che ne aveva bisogno, a tenerle la mano, cercando di ricambiare tutte le notti che aveva trascorso sveglia nel tentativo di farmi scendere la febbre alta con un asciugamano umido che era solita passarmi sulla fronte, lentamente e con amore. Sono passata dall’essere la “figlia ribelle” all’essere la donna “intrepida e coraggiosa”. Quella che decide di trasferirsi in America per essere libera e felice e che lei ha sostenuto senza esitazioni, perfino quando la sofferenza di mio padre era troppo forte per lasciarsi coinvolgere. Continuava a ripetermi “non sei felice qui, vai e sii felice. Te lo meriti”.

pic courtesy of Roberto Vitaliano

Le ultime parole che mi ha detto, poche ore prima di morire, sono state “scusami per tutto, per ogni problema o tristezza io possa averti causato”. Quelle parole non erano necessarie. Stava lottando contro un’infezione, ma niente di così serio da minacciare la vita. O meglio, questo è quello che tutti noi credevamo. Invece, probabilmente lei sapeva che se ne stava andando. E voleva farsi perdonare da me per qualcosa. Sono grata di aver prontamente risposto “Mamma non c’è nulla di cui essere dispiaciuta. Ti voglio bene e domani parleremo ancora”. Non le parlerò mai più.

Mio padre Vincenzo mi ha detto che quel giorno, prima di lasciarci, lei gli ha preso la mano e ha detto “Ti amerò sempre Enzo”. Lui ha risposto “e io ti amo come il primo giorno che ci siamo incontrati”. Sono felice che questo sia il ricordo che serberà nel cuore come sostegno per sopravvivere e che per me e mio fratello e per i miei nipoti, è una fortuna sapere che si sono amati in questo modo per oltre 55 anni

pic Angela Vitaliano

Mentre scrivo queste parole, il funerale di mia madre ha già avuto luogo: è stata cremata e non avrei potuto farcela per tempo in nessun modo. Neanche con l’Air Force One sarei riuscita ad arrivare in tempo per parlarle un’ultima volta. Per dirle che sono così orgogliosa quando la gente mi dice che sono come lei. Non la rivedrò mai più viva. E questo è ciò che dovrò sopportare nei mesi a venire.

In queste ore, mi sorprendo a pensare al film Brooklyn: una storia, tra le più belle, sull’immigrazione, sul significato (e il dolore) di trovarsi lontani, così tanto che spesso non puoi “arrivare in tempo”. La mia amica Riccy mi ha detto “hai fatto una scelta quando sei andata via e questa è la tua decisione”. Aveva ragione. Eppure, questo non lo rende meno doloroso o meno ingiusto. Essere distanti, in questa solitudine rarefatta che molti amici tentano di penetrare con scarso (ma prezioso) successo, è una tortura.

È un dolore insopportabile. Fai cose che probabilmente non avranno un senso agli occhi di tante persone, come impostare la sveglia alle 6:15 per essere in piedi mentre in Italia stanno portando tua madre in Chiesa per la Messa dell’addio. O passare in rassegna tutte le foto che hai con lei. O rispondere a tutti i messaggi di condoglianze, cosa che tutti gli altri parenti faranno nei giorni a venire. Non oggi, non adesso. Per sopravvivere fai delle cose che ti aiutano a malapena a passare da un minuto all’altro, mentre ti rendi conto che lei non è più qui. E il fatto che tu sia così lontana, perché sei andata via per essere felice, suona inutile e triste.

Ma non puoi semplicemente sopravvivere. Devi essere all’altezza delle aspettative di qualcun altro, e quelle di mia madre erano alte. In questi momenti trovo d’aiuto una bellissima poesia ebraica “When All That’s Left is Love” del Rabbin Allen S. Maller, perché mi ricorda l’unico significato accettabile della morte: un’altra forma di vita, non confinata in un corpo umano.  “L’amore non muore, le persone muoiono. Percio’ quando tutto cio’ che sara’ rimasto di me sara’ l’amore, allora donami”. Quando il corpo non c’è più, tutto l’amore rinchiuso in quello scrigno del tesoro vola via liberamente ed in perfetta armonia con l’universo. Così l’insopportabile dolore della perdita, amplificato dalla distanza, diventa altro: riusciamo a “respirare” i nostri cari attraverso l’aria. Possono accarezzarci il viso con il vento e possiamo guardarli negli occhi attraverso gli occhi di qualcun altro, che amiamo allo stesso modo.

pic Angela Vitaliano

E possiamo tenerli in vita onorandone l’esistenza ed i ricordi che serbiamo di loro. Io ne ho tantissimi. Ed ho lei a farmi da ispirazione ed esempio: ha vissuto una vita intera con dignità e orgoglio. Ha fatto in modo che la mancanza di soldi non fosse mai un problema per noi. Abbiamo sempre avuto cibo sano e delizioso in tavola, eravamo sempre vestiti e pettinati in modo ordinato, l’acqua nella vasca era sempre calda a sufficienza quando dovevamo farci un bagno durante l’inverno.

Ci aiutava con i compiti, ci raccontava storie di notte e anche durante il giorno quando lo chiedevamo, amava mio padre, accettava e amava tutti i nostri amici. Adorava i nipoti Cristian e Serena. Durante il Ramadan, si fermava per strada a parlare con Maliko chiedendo “Sei affamato? Quando potrai mangiare?” come solo una mamma farebbe. Mi ha chiesto di poter vedere Dorothy (il mio cane) con FaceTime, fino all’ultimo giorno.

Lei, una ragazza cattolica cresciuta in una famiglia estremamente conservatrice, ha sposato l’amore della sua vita Vincenzo, comunista e ateo. Un uomo che, fino all’ultima volta che vi si è recata, l’ha aspettata fuori dalla chiesa ogni domenica. Ma più di ogni altra cosa, lei, una donna del sud Italia, mi ha reso libera. Mi ha lasciato spiccare il volo. Mi ha ricordato che merito di essere felice. Mi ha amato per quella che sono. E io sono e sarò per sempre sua figlia.