La mia amica Diane, con la quale passavamo pomeriggi a chiacchierare, in italiano, bevendo vodka tonic, è stata una delle mie “guide privilegiate” in questa città. Lei, di New York, era il Chrysler ed io me ne stavo ore ad ascoltarla mentre mi raccontava delle feste scintillanti, della bellezza di Rock Hudson, degli anni dell’AIDS in cui si moriva come mosche in estate e delle mille rinascite, sempre con un nuovo show a Broadway e uno scandalo di cui nessuno poi, in fondo, si scandalizzava per davvero.
L’avevo incontrata al parco dove, seduta con la sua aria da diva, leggeva un libro con, al fianco, la sua fidatissima Pixie, meraviglioso maltese bianco che impazziva ogni volta che mi vedeva arrivare. Lei, come tanti newyorchesi, mi apri’ le porte della sua vita ed io mi ci accomodai, divorando ogni frammento di amore per questa citta’ che lei adorava piu’ di me. Quando si trasferi’ in Florida mi regalo’ il suo bellissimo cappotto cammello e tanti libri di cucina che conservo gelosamente. Dopo due anni aveva gia’ venduto la casa a Palm Beach perché le mancava New York, la sporcizia, il rumore, il traffico e la politica di cui era appassionata quanto me.
Con quel suo fare, a volte un po’ burbero, quando la sua citta’ ha dovuto lasciarla per sempre, ha lasciato scritto, come fosse un ordine, di non comprare fiori ma di fare donazioni alla ASPCA (un’associazione per gli animali), alla Dalton (la scuola dove avevano studiato i suoi figli e suo nipote) e alla campagna di Hillary Clinton che raccomandava di andare a votare a novembre. A volte sorrido pensando a quante chiacchiere appassionate ci saremmo fatte in questi giorni con un presidente come Donald Trump.
Mia madre adorava Diane senza averla mai vista, solo dai miei racconti e mi raccomandava sempre di chiamarla e andarle a fare visita, soprattutto quando aveva iniziato ad avere qualche problema di cuore. L’ultima volta che ci siamo viste era determinata a fare da Cupido fra me e un giovanotto che si era da poco trasferito nel suo palazzo e che adorava pazzamente. Lei avrebbe ordinato le cose, io avrei cucinato e lui si sarebbe innamorato senza salvezza. Questo era il piano e ci abbracciammo ridendo sulla porta.
A NY, però, ho imparato che i piani sui quali puoi contare sono solo quelli dei grattacieli. Gli altri difficilmente resistono alle mille variabili che ogni giorno ti abbagliano facendoti arrivare a sera con la sensazione di esserti perso un sacco di vita e che domani dovrai fare meglio.
Cosi’ una notte, giusto poche settimane dopo il momento in cui telefonare a casa di mia madre diventò un gesto inutile che mi obbligo’ alla ricerca ossessiva della sua voce nei miei ricordi, sognai proprio una di quelle telefonate, che mi mancavano come il respiro del mare, in cui mia madre mi chiedeva di non dimenticare di passare a far visita a Diane.
Il giorno successivo le scrissi una mail in cui le dicevo di mia madre e le chiedevo se potevo passare per una vodka tonic e due chiacchiere. La sua mail arrivo’ puntuale al mattino. Era firmata da sua figlia che mi diceva che quella notte Diane ci aveva lasciato.
Da tempo, molto tempo, ho smesso di chiedermi la ragione di molte cose o di cercare a tutti i costi spiegazioni a cose che non sembrano affatto spiegabili. Perché quelle spiegazioni sarebbero superflue. Addirittura inutili.
Quando, pero’, il meteo, come in questa settimana, annuncia che passeremo dalla neve ai 27 gradi in soli quattro giorni, penso a Diane che mi diceva sempre “a New York, ogni settimana, quattro stagioni diverse”. E sorrido pensando a quanta vita dentro mi abbia lasciato. A quanta fortuna si possa incontrare, a New York, camminando nel parco, in un giorno di primavera, se solo sai guardare. Se solo sei sempre pronto a lasciarti stupire.
Non chi comincia ma quel che persevera – Not who starts, but who perseveres