“Non stai scrivendo, ultimamente”. Una persona me lo ha fatto notare. Una battuta buttata là, bonaria, ma che è affogata nel mio senso di colpa.

Allora ho deciso di mettere testa e parole sull’ultimo libro di Antonio Lanzetta.

“Le colpe della notte” chiude il ciclo narrativo dell’autore salernitano che aveva prima partorito “Il buio dentro” e poi “I figli del Male”. Non li ho letti. Confesso inoltre che ho scoperto lo scrittore attraverso i social. Mi ha incuriosito il fatto che il suo romanzo, “Le colpe della notte”, sia approdato all’Italian Book Shop di Londra, con la presentazione di Stefano Tura. Scrittore di thriller a sua volta e che ho recensito più volte nel Blog. E allora ho iniziato a seguire Lanzetta su Instagram. La mia prima impressione è stata che la sua scrittura noir non corrisponda affatto alla sua fisionomia. La faccia di Lanzetta è barbuta e rassicurante. La barba per me ha sempre fatto Babbo Natale. Ma nessuno è mai come sembra. E allora mi immagino l’autore, chino sul computer, avvolto nelle ombre della notte a scrivere e a scrivere accanto ai suoi amati gatti. E la notte, tanto per riprendere il titolo del romanzo, ha sempre qualcosa da farsi perdonare. Un po’ come Cristian, l’eroe adolescente di Lanzetta, che sente il peso della morte dei suoi genitori. Cris preferisce i virtuosismi della rete alla realtà, che gli si rivolta poi contro e si presenta nella forma più sporca, insozzata di sangue e di orrore. Come dice Stephen King, “il sangue non è una questione di splatter” ma tutto ha un senso. E ci si interroga sul perchè il commissario Scalea, il padre del ragazzo, uccida prima la moglie e poi si trivelli il cervello con la sua stessa pistola. Un omicidio-suicidio che muove da subito un’indagine ufficiosa condotta dallo scrittore Damiano Valente e dal commissario De Vivo. Personaggi già noti ai lettori di Lanzetta. Nuovi invece per me.  Da Firenze, Cristian intanto finisce nella casa-famiglia di Flavio a Castellaccio, piccolo centro del Cilento. Nel bosco il ragazzo fa una macabra esperienza che lo cambierà.

Mentre scorre la narrazione, si capisce che a Castellaccio il male sembra aver scavato solide radici, come quelle dell’albero di salice, in cima alla montagna, dai cui rami penzolava la ragazza decapitata. Claudia e le altre. Quella brutta storia e il suo mostro fanno ancora parte degli incubi del paese e del vecchio Commissario Girolamo, a cui si aggiunge il caso irrisolto e lontano della scomparsa della piccola Elena. La bambina del fiume.


“Tutto era in pezzi”, scrive l’autore. E così a ricomporre i pezzi del mosaico ci prova Cristian.  E la ricerca della verità diventa per lui un modo per risolvere anzi per risolversi. L’autore usa immagini forti nel descrivere il male e lo rende ancora più penetrante attraverso il ritratto dei personaggi a cui si finisce per affezionarsi o al contrario, nel loro essere mostri, suscitano ribrezzo e trascinano il lettore nella notte, nel buio dell’anima. Si capisce che bisogna passarci dentro la notte e imparare a perdonarla. Secondo lo scrittore questo è l’unico modo per rimettere le cose a posto. E la colpa più grave, penso io, sarebbe non provarci. Il libro trascina in un dedalo di emozioni sempre più forti e sempre più veloci. Si posano sulla pelle. Entrano nella carne. Si sente allora il bisogno di avere la soluzione, di sapere la verità. Questa sembra essere in movimento fino all’ultima riga. E la verità, scrive Oscar Wilde, è raramente pura e mai semplice.