Vivo a Dhaka da vent’anni, una vita. Ne conosco tutti gli angoli, quelli belli, dove amo sedermi a leggere un libro aspettando le figlie da scuola, e quelli brutti da evitare; conosco le strade carine da attraversare in rickshaw, all’ombra di maestosi alberi; so quando uscire per trovare meno traffico o come fare per evitarlo, anche se a volte mi frega; ho abitato in questa città così a lungo da ricordarmi com’era la casa in quell’angolo di strada dove ora c’è un palazzo di quindici piani; il ristorante che c’era dove adesso ce n’ è un altro, magari piu’ carino, perchè dopo neanche un anno aveva già fallito; so in quale angolo di marciapiede e di quale strada sta il mio giustascarpe preferito o il sarto o ancora il signore che stira, lava e inamida sari; le strade dove si può attraversare sulle strisce e dove invece bisogna scavalcare lo spartitraffico nel punto dove qualcun altro ha già fatto il buco nella rete per passare. Ho visto Dhaka in tutte le sue forme e contraddizioni; dall’abbandono degli autorikshaw a benzina all’adozione di quelli nuovi a metano, dalla bonifica di alcuni laghi e canali alla costruzione di sopraelevate che in teoria ci dovevano salvare dal traffico indisciplinato e intenso.

Sono stata testimone di cinque passaggi di governo ed ho vissuto anche il commissionamento dei poteri fra il 2006 e il 2007; esperienze incredibili, se guardate con il senno di poi, passaggi di poteri mai totalmente democratici e liberi.
Ecco, mi mancava Dhaka durante una pandemia.
Non che non avessi mai conosciuto una Dhaka vuota. Ho immagini di Dhaka deserta impresse nella memoria che risalgono a quindici, venti anni fa, quando le strade letteralmente si svuotavano durante l’iftar, quella specie di cena anticipata per rompere il digiuno durante il mese di Ramadan; per non parlare poi degli hartal, scioperi politici indetti dall’opposizione per protesta nei confronti del governo. Ricordo la gioia di poter stare a casa dal lavoro o le ragazze da scuola per uno o due giorni, a volte anche per una settimana. Ora non esistono più perchè non esiste più un’opposizione. Allora si’ le strade erano deserte, non passava anima viva, non si usciva ne’ a piedi per paura di essere coinvolti in dimostrazioni quasi sempre violente ne’ in macchina perchè sennò te la sfasciavano, ne’ con gli autobus perchè venivano incendiati con le persone a bordo. Quelle volte si’, Dhaka era veramente deserta. Quelle volte il nemico era visibile, si paventava come un militante imbavagliato e minaccioso con in mano un bastone, una pietra, a volte una bomba incendiaria, la polizia che mandava via i dimostranti con i lacrimogeni.
Il virus non fa altrettanta paura.

Il governo ha imposto la chiusura di scuole, uffici e attivita’ commerciali non essenziali dal 18 marzo. Il numero dei positivi al test sale lentamente ed e’ impossibile stabilire sulla base dei dati ‘ufficiali’, quando ci sarà un picco per il semplice fatto che non si stanno facendo test a sufficienza.
Pensavo anch’io di vedere una Dhaka vuota, sonnacchiosa, inerme come le altre grandi città le cui foto mi arrivano puntualmente su FB. Esco una volta la settimana, anche meno, a fare la spesa; l’ultima volta quindici giorni fa. Ho preso la macchina, ho fatto circa 20 chilometri per andare nel quartiere di Gulshan, quello reso famoso per l’attacco jihadista del 1 luglio 2016, dove so che trovo alcune cose importate tipo la pasta Barilla, il riso per fare il risotto (nonostante le tonnellate di riso prodotte annualmente, non esiste l’arborio) e che pago l’equivalente di 8 euro al kg., la pancetta e il prosciutto, e la strada era semideserta. Ho impiegato 20 minuti a differenza della consueta ora e mezza. Purtroppo non è piu’ cosi. Ieri sono uscita di nuovo; a parte gli autobus che non sono in servizio e il fatto che gli uffici e le scuole sono chiuse e quindi c’e’meno gente e macchine per strada, il resto è tutto come prima; non sembra essere cambiato nulla. I bazar sono pieni, e le persone non mantengono la distanza di sicurezza, i supermercati anche anche se c’è un minimo sforzo da parte dei dipendenti di far rispettare le regole. La situazione peggiora se si va a Puran Dhaka o nelle aree meno abbienti di Dhaka, per non parlare degli slum dove già, anche senza il virus, mantenere condizioni igienico-sanitarie adeguate è sempre stato difficile se non impossibile. C’è chi se ne va a pregare in moschea il venerdi, chi va a fare commissioni approfittando dell’improvviso tempo libero e chi semplicemente gironzola per la strada con gli amici e chi sfida la pattuglia della polizia che fa la ronda. Purtroppo la rigorosità e la disciplina fisica e mentale necessaria per far fronte a questa nuova situazione sono assenti, ed è preoccupante. Incivili e irrispettosi delle leggi fin da prima, i bengalesi non sanno come tirar fuori da se’ queste qualità, ora indispensabili. D’altro canto il buon esempio non viene neanche dall’alto. Quintali di beni di prima necessità vengono rubati, reciclati, sotterrati, buttati nei fiumi, nascosti o rivenduti da membri delle amministrazioni locali. Medici, infermieri/e vengono dotati di mascherine e materiali di protezione non a norma. Non tutti gli ospedali preposti alla cura dei malati COVID hanno a disposizione ossigeno. Nei mercati c’è chi pensa a fare stock di beni per poi rivenderli a prezzo piu’ alto.

Questa volta, come del resto tante altre volte, Dhaka mi ha deluso. Pensavo che un cambiamento fosse possibile viste le condizioni di emergenza in cui viviamo ma purtroppo i corrotti rimangono corrotti, gli abbienti, rinchiusi nelle loro case, fanno sbrigare le faccende da fare ‘fuori’ alla servitu’. I poveri sono come sempre rassegnati; gli operai delle fabbriche sono furiosi perche’ devono ancora ricevere il salario di marzo; i ricchi, per la prima volta messi veramente all’angolo, ordini cancellati, mancanza di liquidi ed anche l‘idea stessa di doversi curare qui quando erano abituati a volare a Londra o a New York per farsi passare il raffreddore, sono nel panico, un altro privilegio di chi il panico forse non l’ha mai conosciuto prima.



