Ho scritto questo racconto lo scorso inverno – ed e’ stato pubblicato nel volume “La rivincita del cuore” curato da Emilia Ferrara.
Eppure, mi sembra scritto oggi, nel momento in cui abbiamo piu’ bisogno di ricordarci che il sole sorge sempre. Anche dopo la piu’ lunga delle notti.
L’8 giugno, Dorothy manchera’ da un anno alla mia vita. Ogni mattina, appena apro gli occhi, la cerco. Per qualche secondo, tutto diventa cupo. Lei era la mia stella cometa. Senza di lei ho compreso, per la prima volta, il senso della solitudine.
A lei, alla mia Dorothy, compagna della mia resistenza, dedico questo racconto. E la promessa di amare ancora e sempre, proprio per onorarne la vita.
“Resisti, Dorothy. Resisti. Non mi lasciare. Resisti. Non aver paura”.
Ho sempre amato volare. La prima volta che presi un aereo fu per andare a Salonicco. I treni erano stati parte della mia infanzia e adolescenza. Papà non aveva mai preso la patente e nemmeno mamma e, quindi, non avevamo un’auto e giravamo in treno.
L’aereo arrivò tardi. Molti miei amici avevano gia’ attraversato i cieli di mezzo mondo, mentre io ancora ben salda a terra, ad aspettare il mio momento. Quando allacciai le cinture, mi addormentai all’istante e mi risvegliai a destinazione. Mi succede spesso quando sono profondamente felice e agitata allo stesso tempo: io dormo. Poi non ho dormito piu’: sempre seduta al finestrino, ho guardato cieli, montagne, oceani, nuvole, albe e tramonti e me ne sonno innamorata ogni volta. Ho guardato lo skyline di New York per prima volta, atterrando a Newark, sentendo, immediatamente, dentro di me che, quella, era casa mia.
Solo una volta, ho volato come se stessi precipitando all’inferno. Ci stavamo trasferendo a New York. Dorothy nella stiva, per rispetto a regole di viaggio crudeli e disumane. Una compagnia aerea che prometteva grandi cose, invece, sembro’ impegnarsi per uccidere il mio cane e la mia felicita’. Con un ritardo alla partenza di tre ore, senza annunci, senza spiegazioni, senza il minimo di rispetto, il mio cuore era gia’ impazzito pensando a Dorothy chiusa in quella gabbia, in quella stiva rovente. Con le lacrime agli occhi e tutta la disperazione del mondo chiesi a uno steward di darmi notizie: lui con una risata ironica e in dialetto mi disse che i cani erano ormai morti e che quindi era meglio farmene una ragione. Ci sono momenti nella vita in cui detesto la sciatteria volgare dell’ironia obbligata e fuori luogo, violenta e volgare.
Viaggiai per nove ore piangendo e parlando con Dorothy. “Resisti Dorothy. Non morire. Non aver paura. Non mi lasciare”. All’aeroporto JFK, in barba a tutti i regolamenti, la compagnia aerea abbandono’ il trasportino in un posto qualsiasi, senza che nessun membro dell’equipaggio aspettasse – come previsto – il mio arrivo. Trovai Dorothy quando ormai non avevo piu nemmeno la forza di avercela a morte con qualcuno se non con me stessa. Mi gettai a terra in ginocchio e lei lancio’ un urlo che fece accorrere i poliziotti che – con estrema gentilezza – ci aiutarono a raggiungere il taxi.
Quando arrivammo a casa, la nostra casa newyorchese, Dorothy non riusciva a stare in piedi. Ci vollero mesi per riprendersi. Per tornare felice. Ma riuscimmo e, quando le ho detto addio, lo scorso giugno, dopo 14 anni, ho avuto la certezza che di quel viaggio buio e senza cielo, avessi piú memoria io di lei. Lei, lo spero, si e’ addormentata rivedendosi correre nella neve di Riverside Park, con il cappottino rosso e le orecchie appuntite, a seguire il richiamo della vita.
Quel viaggio, tuttavia, piu’ di tutto, mi ricordó il valore basilare della resistenza. Della nostra capacita’ di diventate roccia e resistere agli attacchi che arrivano dall’esterno e che potrebbero frantumarci l’anima in pezzi troppo piccoli da rimettere insieme.
Pur essendo cresciuta onorando la Resistenza, con uno zio partigiano e una famiglia comunista, di buoni comunisti, non ne avevo mai compreso il senso profondo e quotidiano come in quel viaggio che avrebbe potuto annichilirmi.
Se sono venuta a New York, come ho fatto, contro ogni consiglio e logica, l’ho fatto perche’ ho resistito alla tentazione di arrendermi a un fallimento impostomi da un paese che non mi proteggeva piu. Non aveva spazio per me. Soprattutto come donna fiera
Se mi sono rimboccata le maniche ricominciando da zero e’ stato perche’ ho resistito alla comoda alternativa di accontentarmi, vivendo la vita decisa da altri per me.
Se ho letto come primo libro, mentre ancora le lacrime della solitudine mi accompagnavano nelle ore del giorno, dopo settimane dal mio arrivo, “L’audacia della speranza” di Barack Obama, e’ stato perche’ ero determinata a trovare una voce che mi accompagnasse in quell’atto di resistenza, in quella rivoluzione del vivere che avevo iniziato.
Se, con il portafogli sempre troppo vuoto e malinconie sempre instancabilmente in agguato, ho continuato a innamorarmi, a cogliere l’immensita’ di un abbraccio avvolgente di due volti che guardano la neve e ne respirano il silenzio e’ stato perche’ ho resistito alla volgarita’ di lasciarmi imbarbarire dalle difficolta, di tradire l’essenza di cio’ che mia madre e mio padre avevano plasmato.
Se sono sopravvissuta, quasi indenne, alla morte di mia madre senza aver avuto quel minuto “di giustizia” per salutarla e per dirle grazie, grazie di tutto e grazie per sempre, e’ perche’ lei mi aveva insegnato, nelle ore della febbre di bambina, che poi il dolore passa. Se resistiamo, passa. E diventa giorno. Sempre.
Se non ho desiderato fare i bagagli in una delle notti più cupe della vita di questo paese, quando Donald Trump e’ stato eletto, lasciando attonita e spaventata ogni persona di buon senso e di profonda umanita’, e’ perche’ ho saputo subito che bisognava resistere per arrivare all’alba di un nuovo giorno, come mille volte e avvenuto e avverra’, dopo tragedie umane inenarrabili: il fascismo, il nazismo, la schiavitu’, i campi di concentramento.
Da quel viaggio senza cielo in cui, per nove ore, implorai Dorothy di non arrendersi e di resistere, ho resistito mille volte alla tentazione di forme di resa molto simili alla morte.
A volte e’ difficile. Fanno male i polsi. E i denti si stringono. E manca l’aria. Allora bisogna guardare dal finestrino, anche nel viaggio piu’ dolente, perché il cielo sara’ comunque lí con il suo azzurro e all’alba seguira’ sempre un tramonto, ma, poi, un chiarore ancora.
La resistenza e’ l’essenza del vivere. E si puo’ vivere solo se negli occhi si e’ accumulata tanta bellezza da riuscire a vederla anche attraverso le piu spaventose tenebre.
Non si resiste per non morire. Si resiste per continuare a vivere anche nella morte. Perche’ quando resisti, hai in mente solo la vita.