“A me date i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. 

Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste, ed io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”.  

 

Queste, le parole che milioni di immigrati, poveri, disperati e, allo stesso tempo, tenuti in vita solo dalla speranza di una nuova vita, leggono dal 1881 sulla base della Statua della Liberta’, icona di un paese, piu’ di tutti gli altri, nato solo ed esclusivamente dagli “stranieri”. Qui, in queste terre, dove Cristoforo Colombo arrivo’ pensando di essere approdato in India, vivevano gli unici che avrebbero diritto oggi di reclamare un diritto di proprieta’: i nativi. Tutti gli altri, olandesi, britannici, italiani, irlandesi, cinesi ecc, ecc, ecc, sono arrivati dopo, molto dopo, spesso portando distruzione e violenza. Eppure, la Statua della Liberta’, nei secoli, ha continuato a ricordare, a chi arriva negli Stati Uniti, che questo e’ un paese di immigrati che – sempre – hanno affrontato il dolore e la paura di un viaggio verso l’ignoto, con l’unico obiettivo di avere una vita migliore.

 

Quanta similitudine nello scempio crudele dei bambini separati dai genitori che provano ad arrivare in USA, che Trump sta mettendo in atto da sei settimane e quello delle 630 anime a bordo dell’Aquarius, rifiutate da un governo di estrema destra, violento e razzista. Quanta amara similitudine fra queste vite, i cui pianti strazianti stanno scuotendo il mondo nella loro potenza, chiuse in gabbie senza nemmeno un letto su cui dormire, separati da tutto cio’ che conoscevano al mondo, i loro genitori, e i Rom che si vogliono schedare, ghettizzare, catalogare, magari segnalandoli con una stella sul petto. Anzi forse con cinque stelle.

Non c’e’ nulla di piu’ pericoloso della paura irrazionale, violenta, arrogante, immotivata dei nostri simili. Non c’e’ nulla di piu’ immorale che salire sul podio di una presunta superiorita’ e decidere chi vive e chi muore. E chi vive deve – chiaramente – vivere secondo le nostre regole, i nostri modelli, i nostri gusti. Non c’e’ nulla di piu rivoltante di chi perde l’umanita’. L’empatia. Di chi perde di vista cosa significhi poi, in fondo, essere “viventi”, dotati di cervello.

 

In America come in Italia, sento dire che lo fanno per il “loro bene”. Perche’ in America come in Italia, sarebbero sfruttati e trattati male. Da chi? Da americani e da italiani i quali, pero’, lasciamo impuniti, verso i quali restiamo silenti, non piu’ leoni ma pecore intimorite dal grugno del capo. Il capo che ci fa i favori, che ci raccomanda, che ci trova il posto di lavoro: se lo fa a noi va bene, anche se tutto, poi, e’ fatto a discapito di altri. Guai pero’ a mettersi contro i capi. Ci vorrebbe dignita’ e cuore e coraggio. Piu’ comodo, molto piu comodo, mettersi contro i piu’ deboli, contro gli ultimi che hai visto mai che si rimettono in piedi e ci superano, rivelando in maniera terribile che gli ultimi siamo proprio noi e che quella posizione ce la siamo guadagnata tutta.

 

 

 

Io mi chiamo Angela Vitaliano e sono un’immigrata. E sono rom, e nera, e ebrea, e musulmana, e gay, lesbica, trans e queer, e sono hindu, e sono siriana e congolese. E, a volte sono stanca di tanto odio, ma vi prego, non dite bestemmie, non dite come dischi rotti “l’umanita’ e’ finita”. L’umanita’ non finisce. C’e’ da rimboccarsi le maniche o si puo’ stare a guardare e annunciare catastrofi.

 

Io mi do’ da fare. Perche’ l’umanita’ non muore. Nonostante voi.