- I fatti
Quando il piccolo cominciò a camminare si comportava come tutti i bambini che, pian piano, iniziano a sperimentare cosa significa alzarsi in piedi per la prima volta, cercare di stare in equilibrio, provare a fare un primo passo e poi magari un altro.
Ogni tanto cadeva, gattonava un po’, poi si rialzava, ci riprovava e via così.
Tuttavia, con il passare del tempo, la mamma notò che il bambino, quando camminava, continuava a ricercare degli appoggi, dei sostegni; ad esempio, cercava di spostarsi da una poltrona ad un divano ma sempre cercando con la manina qualcosa a cui potesse appoggiarsi, un po’ come un uccellino che, chiamato per la prima volta ad abbandonare il suo confortevole nido, non si sentisse del tutto sicuro nello “ spiccare il volo “ in maniera finalmente autonoma.
Con il passare dei giorni la mamma si accorse anche che quando il bambino era in piedi tendeva a spostare di frequente il peso da un piedino all’altro, per cui in definitiva non stava mai del tutto fermo, come se questo movimento continuo lo rassicurasse maggiormente garantendogli un migliore equilibrio nella postura.
Un’estate – quando il bambino aveva fra i 4 e i 5 anni di età – durante una vacanza al mare apparve evidente che il piccolo aveva effettivamente qualche difficoltà nel camminare; sulla sabbia bagnata le orme dei suoi piedini mostravano una differente pressione e le piante venivano poggiate in modo marcato verso l’esterno. Infine, osservando la camminata del piccolo stando alle sue spalle, ci si accorgeva che prima di poggiare il piede destro egli faceva come una leggera rotazione dell’articolazione, quasi a cercare la giusta posizione per poter appoggiare la pianta sul terreno.
Al ritorno dalle vacanze il bambino fu visitato da un ortopedico all’interno di una famosa struttura ospedaliera; la conclusione fu che si era di fronte ad un chiaro caso di “ piedi piatti “, accentuato dal fatto che la formazione di un osso della caviglia – l’astragalo – non si era verificata in maniera compiuta.
Dunque bisognava senz’altro intervenire chirurgicamente su entrambi i piedi, operando prima l’uno e poi l’altro; dopo la prima operazione il bambino avrebbe dovuto portare il gesso al piedino operato per circa una ventina di giorni. Poi, dopo circa un mesetto, sarebbe stato necessario fare la medesima operazione all’altro piedino.
Pertanto, fu idealmente stabilita una data per il primo intervento che sarebbe avvenuto da lì a poco, a distanza di qualche mese.
Tuttavia, con l’approssimarsi della data, aumentavano i dubbi dei genitori che desideravano almeno un altro parere medico.
Così, grazie all’aiuto di alcuni parenti, anch’essi medici, fu fissata una visita con un altro dottore che operava in un noto ospedale di un’altra città.
L’arrivo in quest’ospedale fu alquanto traumatico in quanto i genitori entrarono in un edificio che non sembrava ispirare particolare fiducia, con i muri scrostati e le vecchie luci al neon.
Ma l’incontro con il medico fu molto soddisfacente; anzitutto egli confermò che l’intervento era sì necessario ma fu descritto come molto meno cruento e impegnativo, soprattutto per il bambino, che sarebbe stato operato contemporaneamente ad entrambi i piedini, non avrebbe portato alcun gesso e il giorno dopo sarebbe stato dimesso dall’ospedale andando via sulle proprie gambe, protetto da dei tutori e aiutandosi con delle stampelle che avrebbe potuto abbandonare dopo pochi giorni.
Inoltre, il medico spiegò ai genitori come tecnicamente si sarebbe svolto l’intervento, quale obiettivo si voleva raggiungere dal punto di vista fisico e meccanico, cosa sarebbe stato necessario fare dopo circa un paio d’anni dall’intervento per rimuovere dalle caviglie delle specie di piccoli supporti che avrebbero consentito alle articolazioni di svilupparsi nella maniera più appropriata.
Ai genitori, preoccupati per la perdita di giorni di scuola del loro figlioletto, fu detto che il periodo migliore per l’intervento non era l’estate quando molti minori raggiungevano quella struttura ospedaliera vittime di incidenti stradali con i loro motorini, ma la primavera e i giorni di scuola persi non sarebbero stati più di uno o due.
Infine, il bambino – che avrebbe potuto cominciare a prepararsi all’intervento utilizzando dei plantari ad hoc – sarebbe stato rivisto ogni 6 mesi poiché l’operazione non sarebbe stata fatta subito, poiché era opportuno consentire all’osso di svilupparsi al punto da poter sostenere il supporto che doveva essere impiantato.
In conclusione, l’incontro con quest’altro medico tranquillizzò molto i genitori, anche perché, magari, la data dell’intervento era stata procrastinata di almeno un paio d’anni e questo rimandava il problema con le preoccupazioni che, inevitabilmente, un intervento, per quanto semplice, comporta.
Il bambino fu visitato dal medico a intervalli regolari, ogni volta l’incontro era amichevole e cordiale, il bambino veniva chiamato per nome, alle volte anche con un soprannome; il medico gli chiedeva se aveva ancora intenzione di fare il cuoco da grande, come gli aveva detto la prima volta, quando gli aveva chiesto cosa gli sarebbe piaciuto fare una volta cresciuto, si informava sulla scuola e così via.
Insomma, non solo per il bambino, ma anche per i genitori, l’impressione era quella che si andava a trovare un vecchio zio che, da un lato, dava consigli e dall’altro voleva essere aggiornato sullo sviluppo del bambino.
Quando finalmente fu concordato il giorno dell’intervento i genitori e il ragazzo partirono il giorno prima e dormirono in un albergo del posto perché poi l’ingresso in ospedale con relativo ricovero sarebbe avvenuto al mattino presto, intorno alle 7.
All’arrivo in ospedale una grande sorpresa: il complesso era stato in larga parte ristrutturato, il reparto pediatrico prevedeva 16 stanze a due letti per i piccoli pazienti, ogni stanza era dotata di 2 grandi e comode poltrone letto per un genitore, la TV al plasma con tutti i canali televisivi dedicati ai piccoli, una stanza piena di giochi di tutti i generi, un’altra organizzata tipo biblioteca piena di libri, un’altra ancora dove si facevano i compiti perché ogni pomeriggio arrivava una maestra che faceva studiare i piccoli degenti.
L’intervento andò benissimo, così come il decorso post – operatorio con le relative visite di controllo; dopo un paio d’anni il ragazzo tornò nello stesso ospedale per rimuovere i supporti che avevano terminato il loro lavoro.
Oggi quel bambino è diventato maggiorenne; è un bel ragazzo, più alto del padre; non ha alcun problema nel camminare, nel correre, nel saltare e ricorda addirittura con piacere quel periodo, quando si partiva quasi per andare in gita piuttosto che andare a fare una visita medica.
- Riflessioni finali
Per tanti motivi, sia professionali sia personali, credo di conoscere bene l’ambiente ospedaliero.
Apprezzo la passione, l’impegno, la serietà che tanti operatori mettono ogni giorno nel loro lavoro; non è facile confrontarsi quotidianamente con la sofferenza e sapere che non sempre gli sforzi che si compiono portano all’obiettivo desiderato.
Tanti anni fa per motivi di lavoro accompagnai una collega ad una visita che lei aveva fissato con un medico all’interno di un ospedale di Roma; mi chiese se davvero me la sentivo di andare con lei e cercò di prepararmi da un punto di vista psicologico perché l’incontro avrebbe potuto provocare emozioni forti.
La accompagnai; era la prima volta che mi trovavo all’interno di un reparto di Oncologia Pediatrica e l’esperienza fu molto pesante. All’uscita dall’ospedale cominciai a piangere e ancora oggi, a distanza di tanto tempo, mi commuovo ricordando certe situazioni, certe faccine dei bambini, la disperazione di alcuni genitori, nascosta per quanto possibile.
Ho voluto raccontare un’esperienza personale, quella di mio figlio, che tutto sommato ha riguardato qualcosa di semplice dal punto di vista strettamente clinico. Eppure, anche in quella occasione, come in tante altre che ho vissuto più o meno direttamente nella mia vita, è emersa una caratteristica positiva, una qualità, che rende la propria professione – qualunque essa sia – particolarmente gratificante: sto parlando dell’umanità, della capacità di trattare le situazioni e le persone con delicatezza e rispetto.
Il medico che operò mio figlio si segnava su una grossa agenda alcune caratteristiche particolari e informazioni dei bambini che via via visitava e quindi, in occasione dell’incontro successivo, li metteva a proprio agio chiedendo loro qualcosa di personale che si era annotato la volta precedente: “ Vuoi ancora fare il cuoco ? Hai imparato a nuotare ? E ora, quanti gormiti hai ? “. Dal punto di vista dell’approccio uno stratagemma semplice ma efficace, un modo di dimostrare che si è in grado di prendere cura di una certa situazione non sottovalutando nessun aspetto di quello che è il rapporto medico – paziente, qualunque sia l’età di quest’ultimo.
In definitiva, aveva proprio ragione Patch Adams: “ Quando curi una malattia puoi vincere o perdere. Quando ti prendi cura di una persona, vinci sempre “.
Oreste Fasano