Il 16 dicembre è un giorno importante nella storia del Bangladesh perche’ segna la fine della guerra di indipendenza iniziata la notte del 25 marzo 1971 e durata nove mesi e che portò alle resa dell’esercito pakistano il 16 dicembre 1971. Un paio di giorni prima, il 14 dicembre, data in cui scrivo, l’esercito pakistano assieme ai collaboratori bengalesi di Al-Badr e Al-Shams organizzarono l’ultima violenta operazione di morte. Durante quella notte, che viene commemorata oggi come la notte degli intellettuali martiri, l’esercito pakistano, che ormai sentiva prossima la sconfitta, sferrò l’ultimo atroce colpo che doveva tarpare le ali del nascente stato indipendente del Bangladesh colpendo e togliendo dalla scena quelle persone che avrebbero avuto per le loro capacità intellettuali un ruolo di primo piano nella ricostruzione del paese. Avevano preparato una lista, andarono a colpo sicuro di casa in casa, li prelevarono, torturarono, uccisero e li gettarono, alcuni, nel campo dietro quel muro alto che vedete in una delle foto e che ora rappresenta il monumento a loro dedicato. Furono circa 1000, molti dei quali professori dell’università di Dhaka.

Dopo la partizione dell’India nel 1947 ad opera degli inglesi, l’attuale Bangladesh faceva parte del Pakistan Occidentale con il nome di Pakistan Orientale, anche se si trovava geograficamente a 1100 km di distanza.

Gli inglesi avevano sfruttato gli indiani per oltre 200 anni; avevano in effetti diviso la popolazione di religione induista e musulmana mettendola uno contro l’altra, favorendo però la prima. E cosi mentre gli induisti prosperavano, i musulmani rimanevano indietro perche’ discriminati nell’accesso a posti di lavoro di rilievo nelle industrie, nelle università e in generale nella vita sociale. Per questo motivo i musulmani che vivevano in India erano a favore della ‘teoria della due nazioni’ (India e Pakistan) dove avrebbero potuto essere padroni di loro stessi. Accettarono l’idea della partizione e, i bengalesi in particolare, con a capo Sheikh Mujibur Rahman, padre dell’attuale primo ministro e considerato il padre del Bangladesh indipendente, lottarono per la creazione del Pakistan, ovvero di un paese a maggioranza musulmana. Non avrebbero mai pensato però che poco dopo quegli stessi musulmani che avevano aiutato e sostenuto per ottenere l’indipendenza dall’India, li avrebbero a loro volta non solo sfruttati, discriminati ma addirittura uccisi nei nove mesi di guerra che portarono alla creazione del Bangladesh indipendente.   

A parte la religione, anche se i pakistani si consideravano musulmani ‘migliori’ perche’ discendenti diretti del profeta, i due paesi non avevano niente in comune. Ciò che li divideva era maggiore di ciò che li accumunava e pertanto i conflitti furono inevitabili. Prima di tutto il Pakistan Orientale (attuale Bangladesh) era più popolato ed omogeneo con una società che constava principalmente di una etnia con la stessa lingua, cultura e modi di vita. Il Pakistan Occidentale invece era più eterogeneo, popolato da diverse etnie (Punjabi, la maggioranza, Sindi, Baluci, ecc) ciascuna con la propria storia, lingua e bagaglio culturale. Il Pakistan Occidentale trattava il Pakistan Orientale a tutti gli effetti come una sua colonia: fonte di materie prime e un mercato in cui esportare i loro prodotti finiti.

Il primo segnale di ribellione avvenne nel 1952, dopo che il governo Pakistano decise che l’urdu doveva diventare la lingua di stato, quindi anche in Bangladesh. I bengalesi ebbero la meglio, il movimento per continuare ad usare la propria madrelingua vinse; da lì il movimento per l’indipendenza acquistò sempre maggiore rilevanza e forza e portò alla guerra nel 1971. I sacrifici che i Bengalesi fecero durante quei nove mesi furono enormi. I morti furono 3 milioni; 10 milioni i rifugiati nella vicina India; 300.000 le donne e ragazze violentate, marchiate a vita perche’ rifiutate dalla società. Nonostante i tentativi del governo di ridare loro dignità chiamdole Birangona o eroine di guerra, molte si suicidarone, altre andarono a lavorare all’estero come domestiche, altre morirono nel tentativo di abortire. Fu uno sterminio per mano di fatto dello stato, un genocidio a tutti gli effetti.

I bengalesi sono molto orgogliosi del loro passato, dei sacrifici fatti per ottenere l’indipendenza e per potersi esprimere nella propria madrelingua – l’unico paese al mondo che ha lottato e vinto per questo.

Il 16 dicembre è il giorno in cui indossare il sari o punjabi verde e rosso, i colori della bandiera.

Molto è stato scritto in bengali sulla guerra di liberazione; ci sono libri, testimonianze scritte, film, ecc. ma pochi sono stati tradotti in inglese. Vi posso però consigliare questi tre libri sulla guerra di indipendenza scritti da Tahmina Anam perche’ so che sono stati tradotti in Italiano e pubblicati da Garzanti. Lei è figlia di Mahfuz Anam, ora direttore del maggiore quotidiano in lingua inglese, The daily star, e di Shahenn Anam, direttrice di Manusher Jonno, una ONG che si batte per i diritti umani, entrambi parte del movimento di resistenza durante la guerra. I libri sono il risultato del suo dottorato di ricerca per il quale ha intervistato centinaia di persone tra soldati e sopravissuti nonche’ i membri della sua stessa famiglia.

Il primo si intitola I giorni dell’amore e della guerra (A golden Age), il secondo Il suono del respiro e della preghiera (The good muslim) e il terzo La testimone del tempo (The bones of Grace) e seguono le vicessitudini di tre generazioni della famiglia Haque attraverso la guerra e la successiva dittatura.

Ecco, se il 16 dicembre vedete qualche Bengalese in giro per Roma o in un’altra città italiana qualsiasi vestito di verde e rosso, adesso sapete perche’ e salutatelo, se volete, cosi: Shubo bijoy dibosh o Buon giorno della vittoria!.