Facebook mi ricorda che un anno fa mi trovavo in mezzo al mare, in realtà in mezzo a uno dei quattro fiumi piu’ grandi del Bangladesh, che me per me equivalgono a un mare tanto sono maestosi, su uno dei battelli tipici a tre piani, quello per i poveri, la classe media e i ricchi, che fanno la spola tra Dhaka e le città a sud della capitale, verso la baia del Bengala e il delta del Gange.
Si parte da Sadarghat, uno dei posti più caotici della già caotica Dhaka; un pandemonio di suoni e attività: dalle sirene dei traghetti alle urla dei facchini che si devono fare largo tra la folla di passeggeri, chi parte e chi arriva; chi si ritrova e chi si saluta; tra quelli che si svegliano dopo aver dormito sulle banchine e i curiosi, lì solo a vedere la vita degli altri meditando sulla propria.
I fiumi sono parte integrante della vita dei bengalesi. L’acqua dà da vivere a milioni di persone. Garantisce la sopravvivenza ma anche la distrugge. Chi dice che i cambiamenti climatici non sono reali, che abbiamo tempo, che tutto questo allarmismo e’ ingiustificato, vorrei venissero qui in Bangladesh ora, una volta soltanto, e cambierebbero opinione.
Polemiche a parte, vi lascio alla bellezza e al silenzio delle immagini. Ho scoperto, rivedendo le foto di un anno fa, che l’unico modo per scrollarsi di dosso il perenne rumore di sottofondo dei clacson delle macchine, il fischietto del vigile, lo scampanellio dei rickshaw, il vociare delle persone è quello di andare a Sadarghat, salire su un battello e partire, andare il più lontano possibile da Dhaka, per non udire altro se non lo sciabordio dell’acqua contro la barca.