Si è svolto all’inizio di novembre il Dhaka Literature Festival, il consueto appuntamento di letteratura con la partecipazione di autori bengalesi, residenti sia qui che all’estero, e scrittori stranieri che si spingono fin qui dall’Europa, dall’America e dalla vicina India o perchè hanno un legame particolare con il Bangladesh o semplicemente per conoscere e farsi conoscere a questo mercato potenzialmente vasto.

E’ un appuntamento che non perdo mai, cascasse anche il mondo. Non lo dico così per dire, ma questa volta ci eravamo andati molto vicini con l’ultimo giorno del festival che coincideva con l’arrivo di Bulbul, l’ennesimo ciclone estivo che, anche se di medie dimensioni, ha causato forti disagi, pioggia, vento e il rischio di vedersi cancellato il volo di rientro per i partecipanti stranieri.
Ciononostante anche l’ultima performance dell’ultimo giorno, quella della splendida Tishani Doshi, scrittrice, poetessa e danzatrice per metà indiana e per metà gallese, ha registrato il tutto esaurito con spettatori seduti sulle gradinate o addossati al muro della sala.
Per una nazione ancora sulla strada dello sviluppo, un festival di letteratura potrebbe sembrare un lusso, una bolla per i ceti medio-alti che parlano inglese, che magari hanno studiato all’estero oppure per gli amanti della letteratura internazionale. In realtà ha più significato qui se non in qualche città europea. Un festival del genere, con partecipanti bengalesi che trovano spazio per esprimere le proprie idee con una libertà che non troverebbero altrove e la possibilità di interagire con scrittori stranieri sugli stessi argomenti, deve essere visto come la lotta, portata avanti purtroppo da troppe poche persone, per la definizione stessa della natura del paese: qual è la faccia del paese che vogliamo far vedere al mondo? Quello secolare o quella del fanatismo religioso, quella di un paese che parla apertamente e difende i diritti delle donne e delle minoranze o quella della chiusura e della porta in faccia alla libertà di espressione e di pensiero?
Purtroppo devo constatare che il festival passa quasi innosservato sulla stampa e tv locale. L’unico giornale che dedica ampio spazio con un supplemento di 20 pagine ad esso dedicato fa parte degli sponsor. Viene dato risalto al personaggio famoso, magari se l’ospite è un premio Nobel, degli altri non se ne parla. Peccato, perchè senza la lente della censura, i dibattiti sono sempre molto interessanti e vivaci.
Per voi, ci sono io a raccontarvelo.
Come sempre gli incontri, oltre duecento, si sovrappongono e bisogna purtroppo scegliere.
Dell’edizione di quest’anno vi volevo parlare di tre scrittori che già conoscevo abbastanza attraverso i loro libri e di una graditissima scoperta. Sono: Monica Ali, Tishani Doshi e Ernest van der Kwast. Cos’hanno in comune questi tre scrittori? Due cose fondamentali: essere delle cosiddette “hyphenated identities” o identità col trattino e avere, tranne Monica Ali, legami con l’italia.
Monica Ali, che ho conosciuto, letterariamente parlando, dopo la pubblicazione del suo libro Brick Lane nel 2003 e con la quale ho avuto modo di scambiare qualche battuta dopo il suo intervento, è la prima hyphenated identity di cui vi volevo parlare. E’ figlia di madre inglese e di padre bengalese. I genitori dovettero abbandonare il paese nel ’71 allo scoppio della guerra di indipendenza del Bangladesh per trasferirsi di nuovo in Inghilterra dove Monica rimane per circa 50 anni. Questa era la prima volta che rimetteva piede in Bangladesh dopo averlo abbandonato all’età di 4 anni. Brick Lane è una via di Londra che si identifica ancora oggi con la comunità dei primi immigrati bengalesi in Inghilterra. Un ghetto Bengalese dentro Londra, molto chiuso in se stesso, protagonista delle vicende descritte nel libro. Le uniche critiche al libro vengono proprio da qui. “Che ne sa lei di quello che succede a Brick Lane, che non ci è mai venuta? Che ne sa lei del Bangladesh, un paese che ha lasciato da bambina e non ci è mai piu’ ritornata? Sono le obiezioni più frequenti.

Niente di più sbagliato, se uno vede l’opera letteraria come uno sforzo creativo dello scrittore che attinge dalla realtà e dall’esperienza personale quanto basta per elaborare la storia che vuole raccontare. Il Bangladesh per Monica Ali è vissuto nei ricordi e nei racconti del padre e della madre, nella musica che il padre le faceva ascoltare, nei piatti che preparava.
Mentre chiaccheravo con lei insieme a mia figlia Bianca, anche lei un’identità col trattino, mi hanno colpito le sue parole nelle quali sia io che che lei ci siamo rispecchiate. Il vantaggio di appartenere a due culture diverse ti dà il privilegio di stare sulla soglia, dietro una porta socchiusa ad osservarle senza essere giudicata. Da una parte non ne sei dentro al 100 per 100, dall’altra non ne sei neanche estranea. E questo stare sulla soglia ti dà la possibilità di osservare le due diverse realta’ senza essere vista; in fin dei conti un punto di osservazione ideale per chi vuole raccontare delle storie.
La seconda scrittrice, nonchè premiata poetessa e danzatrice, è Tishani Doshi autrice del libro “The pleasure seakers”, che non credo sia stato tradotto ancora in italiano. Il libro è la storia, un po’ romanzata dei genitori e della loro storia d’amore scoperta per caso da lei stessa rovistando un giorno nell’armadio dove trova le lettere che si erano scambiati quando lei non era ancora entrata nell’equazione delle loro vite. Anch’io tengo ancora molte lettere nell’armadio, stai a vedere che un giorno…
Sono stata poi piacevolmente sorpresa di scoprire che Tishani è sposata con un giornalista-scrittore italiano, Carlo Pizzati, anche lui autore di un paio di libri divertentissimi che raccontano le avventure di un italiano in India, il primo Mapillai – che nella lingua Tamil dove risiede significa genero – e il nuovissimo Bending over backwards che racconta come il suo mal di schiena cronico abbia trovato finalmente soluzione e la sua vita sentimentale una svolta felice in India.
L’ultimo scrittore di cui vi volevo accennare è Ernest van der Kwast, un simpaticissimo ragazzo olandese per parte di padre e indiano per parte di madre. Ed è quest’ultima l’indiscussa protagonista del suo libro, Mama, tandoori, questo si’ tradotto in italiano, nel quale racconta la sua infanzia, adolescenza e gioventù con una madre tipicamente Indiana che si fa rispettare a suon di mattarello, molto parsimoniosa come solo gli indiani sanno essere, e un padre succube che a tutti consiglia di non sposare mai un’indiana. Lui invece l’amore lo ha trovato in Italia.
Chissà perchè gli europei che arrivano in India o nel vicino Bangladesh sono guarda caso quasi sempre autori di romanzi esileranti che parlano di questi paesi con il sorriso sulle labbra mentre i protagonisti dei libri di indiani o bengalesi che si trasferiscono in Europa sono sempre al centro di vicende tragiche, problematiche e tristi. E’ una domanda che mi sarebbe piaciuto fare a tutti e tre.

Che l’ironia non sia forse il metodo migliore per affrontare una realtà a volte deprimente, opprimente o ingarbugliata ?
O la chiave universale per essere felici?



